giovedì, Marzo 28, 2024

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Sanremo 2018: una marchetta per l’INPS e una zappa sui piedi per il mercato

Tutte le ragioni per cui quella di Baglioni non è una rivoluzione ma un suicidio di massa

“Quando il medico giunse presso l’infelice, lo trovò che non c’era più niente da fare; il polso batteva, le membra erano del tutto paralizzate. Egli s’era sparato alla testa, sopra l’occhio destro, il cervello gli era saltato”. Con queste parole il genio letterario tedesco di Johan Wolfgang Goethe raccontava gli ultimi istanti del “giovane Werther” in quel suo immenso romanzo epistolare edito nel 1774. Ecco, vi chiederete voi, tutto ciò che c’azzecca con il cast di Sanremo 2018? C’entra eccome, vi rispondo io, in quanto quello scelto da Baglioni e i suoi altro non è che una via sicura per il suicidio di massa.

Il Festival già da alcuni anni giaceva in Riviera come un “infelice” relitto di gloria, malgrado il tentativo di mascherare il tutto messo in atto da un televisivamente sapiente Carlo Conti che, dietro l’obelisco dei grandi ascolti, ha celato una decadenza apparentemente infermabile della manifestazione canora ligure. L’arrivo di Claudio Baglioni alla guida dell’edizione numero 68 della kermesse ligure a molti aveva fatto fare un sospiro di sollievo: nel cantautore romano erano state poste tutte le speranze per vedere attuata una nuova e profonda riforma dell’Ariston che, come quella realizzata da Pippo Baudo a metà degli anni ’80, potesse dare nuova linfa a Sanremo proiettandolo verso il futuro. E invece, come avevo fin da subito paurosamente prospettato, quella di Baglioni non è stata una riforma né, e ciò è persino peggio, un rispetto della tradizione: il cantautore di Questo piccolo grande amore si è affidato ad una netta ed insensata involuzione che farà del male a tutti.

Farà del male alla Rai, il che non è esattamente una buona notizia di questi tempi visti i risultati discutibili dell’azienda di Stato in alcuni dei punti chiave dell’ultima programmazione televisiva (Che tempo che fa e Domenica In tra tutti), perché, come appare evidente, i grandi ascolti delle ultime edizioni non potranno essere ovviamente ripetuti venendo a mancare quel tentativo di soddisfare musicalmente il più ampio pubblico possibile. Farà, naturalmente, anche del male al mercato e alla discografia visto che è impensabile che vecchi e patinati big della canzone italiana del secolo scorso riescano a portarsi a casa vendite stellari pur avendo alle spalle una sovraesposizione mediatica come quella che offre Sanremo per un’intera settimana. Farà del male, dunque, agli stessi artisti in gara macchiati da un Festival che passerà alla storia come un flop e che non consentirà loro di trovare ciò che cercano, e cioè una giusta esposizione per il proprio progetto. E farà del male, logicamente, anche allo stesso Festival che contava su Baglioni per riacquistare vita, non per accelerare il suo processo di decomposizione. In conclusione, quindi, a chi farà del bene? A nessuno, nemmeno a Claudio Baglioni. Non può che essere un suicidio di massa.

Al Festival, dal 6 al 10 febbraio prossimo, sarà in scena il cast più vecchio anagraficamente di tutte le ultime edizioni: età media 47 anni contro i 39 del 2017, i 36 del 2016 e del 2015. Persino i Festival di Fabio Fazio erano più giovani: 42 anni, la media del 2014, 36 anni nel 2013. Una differenza, dunque, piuttosto netta che va a sottolineare il voler riproporre realtà passate, in larga parte del secolo scorso, ma che, soprattutto, non sono più interessanti ed appetibili in alcun modo per il sistema discografico attuale.

Baglioni ha voluto presentare il suo Festival come un concorso fondato sulla parola e la sua potenza espressiva, per questo i cantautori primeggiano in quanto a presenze in un cast che, rispetto alla tradizione contiana, ha preferito rinunciare all’amalgama di diversi elementi privilegiando, invece, l’identificazione di precise linee guida musicali. Ci sono le band, tante band, così tante che TV Sorrisi e Canzoni dovrà pensare ad una copertina pieghevole per la tradizionale foto d’inizio kermesse. C’è l’esordio interessante de Lo stato sociale che rappresentano l’unica presenza indie in questo Sanremo (è già un passo avanti rispetto alle scelte di Carlo Conti che negli ultimi anni mai diede spazio a queste realtà) ma c’è anche l’ultima volta in scena di Elio e le storie tese, invitati da Baglioni in persona a sciogliersi definitivamente a Sanremo non dando quindi un senso alla loro partecipazione: Sanremo non servirebbe per lanciare o consolidare un percorso e un progetto? Perchè dare spazio a chi dopo un paio di mesi non esisterà più? C’è la realtà giovane dei The Kolors per la quota radiofonica di RTL 102.5 e di un pubblico di giovanissimi che, però, non si è voluto capire: i dati non mentono, il pubblico dei talent show già ha dimenticato il gruppo del ciuffutto Stash e difficilmente tornerà ad apprezzarlo. C’è la reunion de Le Vibrazioni che con Sanremo cercano un rilancio prima del nuovo progetto insieme contrariamente ai Decibel di Enrico Ruggeri che si propongono con un progetto già bocciato ampiamente dal mercato nei mesi passati rendendosi, dunque, una presenza evitabile.

E per le band che si riuniscono ci sono quelle che si sciolgono, per cui se Roby Facchinetti e Riccardo Fogli si propongono insieme all’Ariston per ricordare al pubblico degli ex-Pooh che presto partirà il loro nuovo tour (che ha bisogno di staccare ancora parecchi biglietti per considerarsi fattibile) c’è anche l’opinabile presenza di Red Canzian per far chiacchierare i giornali su di una gara interna.

Torna in gara Luca Barbarossa, che ha accettato l’invito di Baglioni di tornare ad occuparsi di musica dopo anni di sola radio, come anche Ron che, non entusiasta dell’esclusione dello scorso anno, questa volta si gioca la carta di Lucio Dalla tirando fuori dal cassetto un brano rimasto inedito per assicurarsi l’effetto dell’omaggio al grande compagno di musica e magari raccogliere qualche consenso in più che, però, difficilmente si trasmuterà in vendite effettive.

La grande colpa del cast formato dalla voce di Avrai è la quasi totale assenza di donne che saranno rappresentate dalle uniche Annalisa, Noemi Nina Zilli che, guarda caso, sono gli unici nomi che la discografia è riuscita ad imporre malgrado il loro non essere esponenti del cantautorato italiano che, si sa, è un mondo prettamente maschilista. Le tre donzelle arrivano all’Ariston bisognose di rilanci e/o di affermazioni definitive dopo anni e anni di risultati altalenanti e, questa volta, potrebbero davvero riuscire nell’impresa di convincere il mercato non avendo tanti altri competitors. Come dire, si andrà a scegliere il male minore.

Stranissimi ed inattesi gli altri 4 duetti dell’annata (oltre a quello di Facchinetti-Fogli) che hanno il chiaro obiettivo di far entrare nel cast quanta più gente possibile che da sola difficilmente avrebbe potuto essere giustificata: il bravo Diodato si unisce a Roy Paci pur venendo da mondi musicali molto distanti e difficili da far convivere in una sola canzone che, pur di accontentare entrambi, potrebbe anche rovinarli per sempre (presupponendo che discograficamente siano mai stati rilevanti). Enzo Avitabile, che debutta all’Ariston per volontà di Baglioni, si farà accompagnare da Peppe Servillo, novizio al mondo discografico (non ha all’attivo alcun album da solista) mentre decisamente in alto punta la coppia formata da Ermal Meta e Fabrizio Moro che dopo gli ottimi riscontri del 2017 non hanno altra via che la vittoria. Di gran classe sarà, invece, il terzetto di Ornella Vanoni, che ritorna al Festival dopo 19 anni, accompagnata da due signori delle parole come Bungaro e Pacifico, due autori che di perle ne hanno scritte parecchie ma che da cantanti non hanno mai goduto di troppo successo.

Bene il ritorno in gara di Max Gazzè, anche se il suo titolo lascia prevedere un’evoluzione non troppo popolare che potrebbe allontanare i suoi sogni di gloria radiofonica, e il debutto di Mario Biondi, ancora sufficientemente novizio della lingua italiana. Giovani sulla carta ma non di certo nella realtà musicale sono, infine, Giovanni Caccamo Renzo Rubino che ritornano in gara avendo entrambi alle spalle un terzo posto tra i big (il primo nel 2016, il secondo nel 2014).

Un cast vecchio, discograficamente parlando ovviamente: dell’età poco importerebbe altrimenti. Questo è il mio responso. Vecchio e privo di donne. Quella di Baglioni non è una riforma, una rivoluzione futurista e sensata ma è un sciocco e malinconico tentativo di riportare al Festival a 20 anni fa quando questi nomi gareggiavano avendo 30-40 anni. Peccato che ora ne abbiano 50-60 e che discograficamente non contino più nulla. Un Festival, dunque, che non è che una marchetta per l’INPS e una vera e propria zappa sui piedi per il mercato che dovrà fare a meno dell’unica manifestazione canora rimastaci in Italia per promuovere quei pochi dischi con le potenzialità di qualche minuscola vendita. Baglioni ha fallito malgrado lo si voglia dipingere come l’eroe che riporta la musica a Sanremo: al Festival, semmai, ha portato la musica che già ci fu, non quella che dovrà esserci. Una riforma si fa guardando al futuro non al passato e il buon Claudio, se davvero aveva intenzione di fare un “Festival 0.0”, avrebbe potuto pensare all’inserimento di una nuova categoria che andasse a separare i “Big” dalle “Nuove Proposte” e dai “Giovani televisivi”, ad un meccanismo di gara che andasse a porre nuovamente attenzione sulle nuove leve di cui ormai ne emerge soltanto una all’anno (se va bene), a pensare a riportare in gara quei veri nomi rilevati che sono stati, invece, lasciati fuori (ancora una volta) dalla kermesse per accoglierli, poi, magari come ospiti, o a trovare canzoni più adatte alle belle voci che, comunque la si voglia vedere, la televisione e l’ultima discografia talvolta ha fatto emergere ma che ancora troppo spesso sono prive di un repertorio sensato e personale.

Ah, Claudio, l’ultima cosa: potevi pure metterci la faccia durante la serata di Sarà Sanremo. Troppo facile mettere lì due pupazzetti che elogiano qualsiasi decisione già presa in cambio di una conduzione in prima serata su Rai1 che mai avrebbero altrimenti avuto. Tu le scelte = tua la responsabilità di esporle.

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Ilario Luisetto

Creatore e direttore di "Recensiamo Musica" dal 2012. Sanremo ed il pop (esclusivamente ed orgogliosamente italiano) sono casa mia. Mia Martini è nel mio cuore sopra ogni altra/o ma sono alla costante ricerca di nuove grandi voci. Nostalgico e sognatore amo tutto quello che nella musica è vero. Meno quello che è costruito anche se perfetto. Meglio essere che apparire.
Ilario Luisetto
Ilario Luisetto
Creatore e direttore di "Recensiamo Musica" dal 2012. Sanremo ed il pop (esclusivamente ed orgogliosamente italiano) sono casa mia. Mia Martini è nel mio cuore sopra ogni altra/o ma sono alla costante ricerca di nuove grandi voci. Nostalgico e sognatore amo tutto quello che nella musica è vero. Meno quello che è costruito anche se perfetto. Meglio essere che apparire.