A tu per tu con Paolo Benvegnù, la nostra intervista in occasione di “Piccoli fragilissimi film – Reloaded”, in uscita lo scorso 11 ottobre con tanti ospiti
“Piccoli fragilissimi film – Reloaded” è il titolo del tuo nuovo progetto di Paolo Benvegnù, fuori a partire da venerdì 11 ottobre. Ce ne parla lui stesso in questa intervista, volta a presentare questa nuova versione del disco che ha segnato il suo esordio da solista nel 2004 e che proprio quest’anno compie vent’anni.
Per l’occasione, il cantautore ha deciso di riletto queste canzoni in compagnia di numerosi ospiti: Paolo Fresu & Ermal Meta, Tosca, Malika Ayane, Giovanni Truppi, Piero Pelù, Fast Animals and Slow Kids, La Rappresentante di Lista, Motta, Appino, Dente e Lamante.
Come si è sviluppato il processo creativo di “Piccoli fragilissimi film – Reloaded”?
«Mi piacerebbe dirti che ne ho coscienza, ma nella realtà ciò che è successo è che l’idea mi è stata suggerita dai ragazzi di Woodworm, poiché quel disco per loro è stato molto importante. Non volevamo alcuna operazione nostalgia e quello che è successo è che tutti hanno risposto con un grande entusiasmo, con una grande gioia. I miei compagni hanno suonato in maniera straordinaria e io mi sono limitato semplicemente a cantare. Ho seguito le cose che succedevano, perciò non c’è stato un mio aspetto creativo perché tutto ciò che mi ruotava intorno era intriso di creatività. Il bello di questo disco è che è corale e rappresenta l’unione di tante cose che succedono, di tante casualità che trovano una loro strada comune».
Lo hai definito “un disco di racconti di frammentazione, volontà, liberazione e rimpianto”. Com’è stato rimetterci mano dopo vent’anni? Sono racconti che riescono ancora a vivere nel tuo quotidiano oppure certi sapori e certe sensazioni fanno parte più dei ricordi?
«Un po’ fanno parte del passato, ma c’è anche qualcosa però che è permanente e che si riferisce in particolare a quel brano che si chiama “Brucio”, che racconta qualcosa di non risolto tuttora. La cosa mi piace, percentuale penso di non voler terminare risolto, il senso è che c’è qualcosa più grande di noi, non è che voglio capirlo, ma semplicemente sentirlo, questa è la cosa permanente. Per questo sostengo che per me si tratta di un miracolo corale, in cui io non mi ci sento tanto in mezzo, direi piuttosto laterale».
Dopo otto candidature, stai per ricevere la targa Tenco. E ne sono veramente felice, soprattutto perchè “È inutile parlare d’amore” è un gran bel disco. Cosa ti soddisfa maggiormente di questo riconoscimento?
«Per rispondere sinceramente, io non riesco ancora realizzare che sia una cosa vera, ancora adesso. Io e i miei compagni siamo nella stupefazione più assoluta. Ritengo questo riconoscimento come una carezza a tutti i colleghi che in questi ultimi venti anni hanno scritto cose molto importanti, sconosciute ai più. Penso ad Alessandro Fiori, a Marco Parente, a Giulio Casale, a Cesare Basile, a Marco Iacampo, a Giuliano Dottori, ad Alessandro Graziano, ma ne potrei dire almeno centinaia. Mi riferisco a quella musica che non è stata vista e perciò se questa è una carezza verso tutti noi, verso quella moltitudine di cui io penso di far parte all’interno di quel gruppo, allora lo trovo gesto molto nobile. Io sono abituato a essere sempre sotto traccia ed è una cosa che mi piace molto, perciò questo mi responsabilizza ancora di più, non tanto per avere dei riconoscimenti futuri, ma perché adesso per certi versi mi sento istituzionalizzato. Ed è assurdo per me esserlo».
Per concludere, in una nostra precedente intervista, mi hai detto: “Scrivere canzoni oggi è come buttare sassi in un fiume”. Non trovi che sia un paradosso nel mondo di oggi, dove tutto è a portata di telefonino? Come spieghi questa controtendenza: il fatto che i ragazzi specie più giovani non siano mossi dalla curiosità di cercare qualcosa che vada oltre l’algoritmo e la tendenza del momento?
«Sì, allora è vero, ma conosco un sacco di diciottenni e ventenni che stanno controvertendo questa tendenza, perché le cose cambiano e loro sono in controtendenza rispetto alla generazione precedente. Questo mi restituisce e infonde speranza. Quando dicevo quella frase del lanciare sassi in un fiume, all’epoca mi ricordo che avevo del rammarico, mentre ora non più. Anzi, ho capito che è proprio questo che bisogna fare: buttare sassi in un fiume, tanto il mondo va avanti lo stesso, non so se meglio o peggio, ma nessuno è indispensabile. A volte mi viene da pensare che siamo succubi del nostro desiderio indotto e perciò l’unica cosa che possiamo fare è sviluppare cose inutili e pensare a cose inutili. L’amore è una cosa inutilissima, perché non porta niente di utile se non l’intercettare il mistero dell’altro. Ecco, dobbiamo intercettare il nostro mistero per poter dirigerci verso gli altri».
Nico Donvito
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