A tu per tu con i TFR, per parlare del singolo “Catramen”. La nostra intervista al duo a cura di Lorenzo Pugnaloni
I TFR nascono con il cuore spezzato davanti a uno tzatziki. Trattamento di fine rapporto: lavorativo, sentimentale, generazionale. Tipo “che dramma essere Millennial”, ma non è nemmeno poi così male.
Se non fosse che il mondo va a rotoli. O “che dramma lasciarsi”, ma anche “Sai che c’è? D’amore non si muore”. Anzi, sì. E pure di lavoro. Avere trent’anni e vivere come fuorisede, intrappolati in una grande città tra le maglie di una routine full-time.
Fomo, divertissement, swipe. Un brindisi alle rivendicazioni di “giovani” – in busta paga, ma non per le agevolazioni e la burocrazia. È possibile che da un match possa nascere un progetto musicale?
“Catramen” è il secondo singolo dei TFR, una dichiarazione amara di chi vive la città come una gabbia, costretto a seguirne i ritmi frenetici e alienanti. È il canto di chi sogna la fuga, intrappolato però in distrazioni che, come un miraggio, offrono solo una fragile resistenza. Drogati e inghiottiti da una Milano che trattiene, i TFR si ritrovano prigionieri dei ricordi e della malinconia, risputati dalla città che li intrappola con la sua crudele bellezza.
La produzione cupa del brano accompagna un testo suggestivo, tra mozziconi, catrame, gastriti e piranha si dipinge il ritratto di una metropoli sterile che fa sentire vuoto anche chi la abita. Oggi, ai microfoni di Recensiamo Musica, il duo si racconta.
Salve ragazzi, avete deciso di identificarvi, artisticamente parlando, come TFR. Che storia si nasconde dietro questo nome?
TFR: «Abbiamo scelto questo acronimo durante una cena in un ristorante greco, in cui parlando delle reciproche vite ci siamo accorti di essere entrambi alle prese con la fine delle cose: dai rapporti di coppia a quelli lavorativi. Davanti a una porzione di tzatziki abbiamo cominciato a parlare di cosa ci sarebbe piaciuto fare in futuro, e per gioco ci siamo detti che avremmo potuto provare a fare musica insieme. Trattamento di fine rapporto ci è suonato subito perfetto per inquadrare il momento che stavamo vivendo, come i testi dei primi pezzi che abbiamo scritto».
Venerdì 18 ottobre è uscito il nuovo singolo “catramen”, quali tematiche e/o argomenti vengono affrontati in esso?
TFR: «”Catramen” parla della necessità di evadere, ma al tempo stesso di una malinconica rassegnazione che si impadronisce pian piano di tutte quelle persone che abitano controvoglia la città – o una situazione a cui sentono di non appartenere più, o fino in fondo. Il tema del cambiamento climatico è molto presente, anche se non centrale, perché è uno dei fattori che rende molti dei posti che abitiamo così respingenti, aggiungendo ansia ulteriore alle ansie che già viviamo. Poi, il tema della solitudine in una società sempre più atomizzata: è una ballad dolce-amara, in cui ci si consola avendo qualcuno accanto con cui condividere queste sensazioni».
Siete un duo. Quanto è stato importante lavorare in sinergia per arrivare ai vostri prodotti?
M: «È stato fondamentale, io già mi dilettavo a produrre o scrivere dei brani per conto mio ma senza trovare una direzione specifica per quello che volessi fare, con Alessandra la sinergia è stata centrale per dare una forma precisa al mio approccio con la produzione e la scrittura».
A: «Anche per me l’incontro con Marco è stato decisivo: avevo sempre scritto per i fatti miei, senza avere pieno coraggio di mostrare quel lato a qualcuno. Con lui è stato tutto subito naturale e così ha continuato a essere, riflettendosi nel nostro approccio. Che un pezzo parta da un mio ritornello, da un suo beat o da una melodia di uno di noi scambiata via messaggio vocale, è per noi quasi immediato capire se qualcosa funzionerà ed essere d’accordo. E quando non lo siamo, il contrasto è creativo».
Nel singolo sopracitato, si parla di una dichiarazione amara di chi vive la città come una gabbia. In che senso?
M: «Finché siamo nella fascia 20-30 anni (ma dipende dai casi) ci si sente più liberi di lasciare tutto e cambiare città e iniziare altrove. Invece, una città che ti dà tanto ma non ti dà abbastanza, ti fa appoggiare a sicurezze che dopo una certa età fai più fatica a lasciare andare».
A: «Il mio risentimento nei confronti di Milano, a cui sono grata per tante cose, tra cui l’incontro con Marco, ad esempio, si è accumulato in 15 anni. È un’esasperazione nei confronti del cemento su cui pesano le mie origini più bucoliche, e nei confronti di tutti quei meccanismi più capitalisti che forse qui sono semplicemente più evidenti rispetto a luoghi di provincia, più a misura d’uomo».
Il singolo affronta anche il tema degli standard della società di oggi. Quanto siamo costretti a seguire ritmi frenetici e alienanti?
TFR: «Nel nostro caso nessuno ci costringe – se non forse aspettative anacronistiche e una ancora scarsa capacità, o per tanti possibilità, di costruire alternative valide: è la città in sé che ha questo tipo di movimento e le persone emulano questa corsa affannosa senza farci caso, sentendosi poi da un momento all’altro parte integrante di questo inseguimento. Ma verso cosa esattamente?».
Come ci si può proteggere da essi? Come uscirne?
M: «Ci si protegge rivalutando il tempo e le nostre priorità. L’ansia da stress lavorativo, ad esempio, è una malattia contagiosa, non solo prende chi ti sta vicino ma riesce anche ad entrare in altri ambiti della vita in maniera serpentina. Riuscire a distendere questo tipo di pensieri è già una protezione; per uscirne, invece, bisogna domandarsi se si è adatti a quel lavoro, quella situazione o a quella città. Se la risposta è no, si fa qualcosa per cambiarla».
A: «Aggiungo: se si ha la possibilità e appena si ha la possibilità di farlo. Se da un lato la procrastinazione è uno dei mali dei nostri tempi, e c’è chi come me ha un particolare talento in questo, dall’altro non tutti hanno la possibilità di emanciparsi facilmente da situazioni scomode. Ognuno di noi sa se si sta nascondendo o meno dietro ad una scusa. Ci si protegge prendendosi cura di sé e delle persone che abbiamo intorno e a cui vogliamo bene in ogni spazio e momento possibile».
Il singolo ha una bella impronta realistica: il testo è suggestivo e si avvale di mozziconi, catrame, gastriti… viene ritratta una metropoli. Come mai la scelta di questa ambientazione emblematica?
TFR: «È la realtà che viviamo quotidianamente: non facciamo altro che scrivere di ciò che viviamo. Una Milano fatta di binari, pavé e colonne d’auto, dove chi va in bici come noi deve solo sperare di non finire incastrato o ignorato, nonostante la precedenza. In una città che sa essere affascinante ma anche ostile, in cui l’allerta è sempre alta e inversamente proporzionale al verde urbano, la gastrite è conseguenza quasi naturale».
Non c’è due senza tre… arriverà il terzo singolo? Ci sono già idee in cantiere?
TFR: «Sì, tra non molto arriverà il terzo, e poi un ep. Per il momento non possiamo dire altro, ma non vediamo l’ora di farlo».
Intervista a cura di Lorenzo Pugnaloni
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