venerdì 22 Novembre 2024

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Bonaveri: l’istinto e l’autenticità di “Reloaded” – INTERVISTA

Il cantautore bolognese ripercorre con noi i suoi primi quindici anni di carriera, racchiusi in un greatest hits che raccoglie il meglio della sua produzione

BonaveriCiao Germano e benvenuto su RecensiamoMusica. Partiamo da “Reloaded”, il tuo ultimo progetto discografico che raccoglie le rivisitazioni di canzoni che hanno segnato il tuo percorso artistico. Con quale criterio le hai selezionate?

«Le ho selezionate insieme al mio produttore artistico, Maurizio Biancani, che conosce in profondità il mio lavoro e con il quale c’è un grande feeling artistico. Ho scelto di confrontarmi anche con Leo Cavalli di Fonoprint, che è colui il quale ha permesso la realizzazione di questa nuova tappa del mio lavoro. Sono brani scelti per le tematiche affrontate in questi 15 anni di lavoro, attraversando il lungo concept formato dai miei dischi che proseguirà ancora nel 2019 con LE COSE CHE CONTANO, e chissà quali altri sviluppi ci saranno. Un criterio quindi di ricapitolazione degli argomenti sensibili».

Quindici anni di carriera, qual è il tuo personale bilancio?

«Sono molto fiero di quanto fatto sinora, perché ho scelto di non barattare la mia integrità con una visibilità da mainstream determinata dal fare musica secondo i canoni consolidati dalle logiche del mercato. Preferisco fare canzoni con la stessa franchezza e sincerità che mi hanno contraddistinto in questo periodo e facendo scelte artistiche e di arrangiamento non dettate dalle mode del momento».

C’è un momento che reputi fondamentale per il tuo percorso artistico?

«È come quando intraprendi un viaggio: non sono le varie tappe, le singole mete, e neppure la meta finale che per natura sposto sempre un po’ più in là a caratterizzare il viaggio stesso. Ogni incontro, ogni evento, ogni concerto ed ogni singolo momento vissuto compongono quel tessuto che diventa poi la vita che vivi. Sono tutti momenti determinanti che hanno costituito questa bellissima avventura che mi ha fatto conoscere artisti e persone straordinarie».

Nell’inedito “Le piccole vite” racconti con estrema delicatezza uno spaccato di vita che riguarda tutti noi. Ti va di raccontarcelo?

«La morte di un amico insostituibile: Topo, che è stato fedele compagno di vita per 14 meravigliosi anni. Il mio gatto, che ho dovuto sopprimere per un devastante tumore ai polmoni. Ho deciso per lui quello che avrei deciso per me, nel tentativo di restituirgli la dignità felina che lo aveva sempre caratterizzato. E’ stato un lutto violento, senza attenuanti, perché quando muore un inerme, ed in special modo un animale, non ci sono parole da dire e resta un irrisolto lacerante. Il testo era stato un tentativo di gestire quel dolore, non lo scrissi perché diventasse canzone. Solo qualche anno dopo, su sollecitazione di Biancani, abbiamo deciso di dargli voce».

Facciamo un salto indietro nel tempo, quando e com’è nata la tua passione per la musica?

«Da piccolo (da molto piccolo) suonavo il flauto dolce, e amavo cantare. Ho ricordi di me che deturpavo le orecchie dei miei nonni… potevo avere 3 anni, o giù di lì. Sono il terzo di tre fratelli, Oscar del ’59, Gloria del ’61 ed io, classe 1968. Ascoltavo i loro dischi ed assistevo, in quel lontano ’78, alle loro serate con gli amici a discutere di politica, di filosofia… restavo in silenzio ad ascoltarli affascinato. Ascoltavano Inti-Illimani, Guccini e ancora De André, il Banco, Lolli, Stefano Rosso e Jethro Tull e tantissimi altri. Io sognavo e volevo fare quel mestiere lì. Davvero, mi immaginavo sul palco ed ero determinatissimo».

Quali sono i generi e gli artisti che hanno ispirato e accompagnato la tua crescita?

«Adoro Italo Calvino, J. L. Borges, Pessoa, James Taylor e Springsteen, Caravaggio e Bosch. Amo la dimensione metafisica, i metalinguaggi, i neri profondi ed i rossi sanguigni ed appassionati, il misticismo esoterico dei portoghesi  e la fierezza romantica e rude degli scozzesi».

Da cosa trai principalmente ispirazione per le tue composizioni?

«Mi piace concentrarmi sulle piccole cose e trarre l’ispirazione dal vissuto, che sia mio o trasmesso dal racconto dell’altro non fa differenza, l’importante è che all’origine ci sia la nostra ordinarietà. Scrivo di getto, con una melodia che vagola in testa quando accade, oppure in semplici versi quando non ho ancora il presagio di una qualche evocazione sonora. Poi rileggo, correggo e decanto a voce alta, interpretando il tutto come una poesia. Se il linguaggio resta alto e si sostiene anche senza musica, so che probabilmente quella creatura potrà diventare canzone».

Sei reduce da due date dal vivo a Bologna e Milano, nelle quali hai presentato il tuo ultimo progetto discografico. Quanto conta per te la dimensione live e il contatto con il pubblico?

«Vivo le due dimensioni (la parte di studio ed il live) in maniera molto rilassata, credo che in fondo siano due facce differenti della stessa medaglia: il lavoro di studio è la fase della creatività ragionata, che nasce a valle della parte creativa pura e semplice: istintuale, primitiva e fortemente erotica. Poi arriva il live, che ha una carica erotica differente, davvero più fisica, ed è anche il momento del confronto di esperienze che scambi con il pubblico in un cortocircuito emotivo molto forte ed appagante. E’ il momento in cui accade lo scambio emotivo, in cui ogni regola salta e ti ritrovi, con un po’ di fortuna, nel terreno del sacro ed indifferenziato, che è proprio dell’arte».

Come valuti l’attuale situazione discografica nel nostro Paese e il livello delle attuali proposte sul mercato?

«Siamo nell’epoca del profitto e della crescita verticale, viviamo a folle velocità e tutto quello che ci circonda ne risente. Non c’è più il tempo di fruire di nulla, siamo distratti con l’ambizione di apparire ovunque e comunque. Ascolto tutti i giovani talenti che si rivolgono a me per avere consigli, a volte soluzioni di arrangiamento, qualche volta sperando di trovare una spintarella che non so dare. Di contemporaneo non ascolto tantissimo, anche se mi piacciono Caparezza, Nick Drake, Cold Play e Springsteen. Il cantautorato che amo di più è quello di Fossati e Brel. Poi amo la musica degli Inti Illimani, dei Procol Harum, Jethro Tull, Pink Floyd… la musica classica mi sorprende ogni volta».

Dopo aver messo ordine nel tuo recente passato con questo tuo ultimo best of, quali sono i tuoi prossimi progetti in cantiere?

«Intendi oltre a sopravvivermi? Allora… di sicuro portare avanti questo progetto al meglio: lo devo ai miei amici e compagni di viaggio, che non cito perché siamo davvero in tanti imbarcati in questa bellissima avventura così fortemente voluta da Leo Cavalli e da Fonpprint, poi continuare la mia vita quotidiana, che è così entusiasmante nella sua ordinarietà».

Alla luce di tutto quello che ci siamo detti, per concludere, quale messaggio vorresti trasmettere al pubblico, oggi, attraverso la tua musica?

«Resistete, sempre. In direzione ostinata e contraria, inseguendo voi stessi e proteggendo il vostro sentire. Coltivate l’amicizia, il linguaggio e la vostra emotività».

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.