venerdì 22 Novembre 2024

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Daniele Stefani e il suo ritorno sotto il segno dell’italianità – INTERVISTA

Da venerdì 11 maggio disponibile il nuovo singolo “Italiani”, una serena presa di coscienza sui pregi e sulle contraddizioni che caratterizzano il nostro popolo

Daniele Stefani ItalianiDopo un EP in spagnolo e diverse esperienze all’estero, Daniele Stefani torna a parlare la nostra lingua e lo fa con “Italiani”, primo singolo di un nuovo corso discografico che anticipa il suo prossimo progetto in studio. Un ritorno alle origini anche dal punto di vista della produzione artistica, affidata a Giuliano Boursier, suo storico e fedele collaboratore con il quale ha firmato i suoi primi due album “Amanti eroi” e “Adesso o mai”. In occasione di questa rimpatriata discografica, abbiamo incontrato il cantautore milanese nell’accogliente studio di Music Ahead e ascoltato in anteprima alcuni suoi interessanti inediti, che descrivono al meglio questa solida consapevolezza e la ritrovata voglia di raccontarsi in musica attraverso nuove canzoni.

Ciao Daniele, comincerei la nostra chiacchierata da “Italiani“, singolo che segna il tuo ritorno discografico in patria, cosa rappresenta per te questo pezzo?

«La mia personalissima presa di coscienza di quelle che sono le nostre caratteristiche principali, i punti di forza, quelli di debolezza, il bianco e il nero del nostro popolo. L’ho scritto di getto, come un po’ tutti i brani che faranno parte del mio nuovo progetto, ho pensato a quello che ho vissuto, a tutto ciò che nel bene o nel male ci caratterizza e ci rende italiani. Dobbiamo essere orgogliosi della nostra arte e di tutte quelle cose che ci portano ad essere amati in tutto il mondo, ma anche cercare di migliorare quelli che sono gli aspetti negativi del nostro Paese. Non è una canzone politica e nemmeno di denuncia, ma solo un invito ad affrontare la vita con estrema leggerezza, infatti, la frase finale racchiude il vero senso del pezzo: “ci piace ridere, ci piace vivere”, noi siamo questo». 

A parlare di certe tematiche si corre il rischio di sconfinare nella retorica, come hai arginato l’ostacolo? 

«Semplicemente non mi sono posto il problema, perché credo di essere riuscito a tirar fuori un po’ la nostra vena ironica, senza trascendere nel banale. Poi, trovo che raccontare la propria storia sia sempre una scelta positiva e saggia, che piaccia o meno, credo che ogni artista debba, attraverso la musica, raccontare la propria storia per risultare davvero credibile agli occhi del pubblico, in particolare un cantautore».

Hai visitato diversi Paesi e vissuto per diverso tempo a Santiago, in Cile, cosa hai scoperto viaggiando?

«Che viviamo in uno dei posti più belli del mondo. Caratterialmente mi definisco molto curioso, amo andare alla ricerca di mondi diversi. Dopo tutte queste esperienze, ho avvertito l’esigenza di parlare di italianità, dell’orgoglio e della fierezza di provenire da un Paese ricco di bellezza come il nostro. Tornato a casa ho pensato fosse giusto raccontare i tanti pregi ma anche i difetti del nostro popolo, noi italiani siamo amatissimi nel mondo, lo dico con cognizione di causa, per quello che ho potuto avvertire personalmente».

Daniele StefaniCome se all’estero ci reputassero migliori più di quanto noi stessi pensiamo?

«Assolutamente si, quando sono partito avevo una concezione dell’essere italiano completamente diversa, anche per quanto riguarda la nostra identità musicale. L’ho avvertito principalmente in Cile, dove ho vissuto per diverso tempo e ho sentito un po’ di nostalgia per la mia terra. Quando ti scontri con una realtà quotidiana differente, ti accorgi come le persone abbiano una percezione diversa della nostra, nei paesi latini soprattutto, ci esaltano molto più di quanto noi facciamo. Ad esempio, se a Santiago c’è un concerto di Madonna e di Laura Pausini nella stessa serata, è molto più probabile che vadano a sentire Laura, perché quel tipo di musica e l’italianità sono estremamente apprezzati. Noi siamo il Popolo della melodia, del bel canto e veniamo riconosciuti e amati per questo». 

Nel nostro Paese, ultimamente, c’è un po’ la tendenza di prendere in prestito dall’estero, di scimmiottare generi internazionali, non valorizzando di conseguenza la melodia che ci ha portato alla conquista del mercato discografico di mezzo mondo. A cosa si deve questa inversione di marcia?

«Sai, alcuni artisti giovani continuano a portare avanti la nostra tradizione, mi viene in mente ad esempio Alessandra Amoroso, ma sono davvero pochi. Un conto è prendere spunto dall’estero, puntando sempre un occhio, anzi un orecchio, all’internazionalità ma senza perdere la nostra identità e la melodia, che è il nostro vero marchio di fabbrica. E’ giusto che le sonorità si uniformino al resto del mondo, altrimenti non saremmo concorrenziali, ma c’è bisogno di un ritorno alle nostre radici, riscoprendo ciò che siamo veramente bravi a fare. Non bisogna snaturare le nostre caratteristiche, dobbiamo tornare a spingere sulla nostra italianità, senza seguire mode o tendenze estere, è come se lo chef Cannavacciulo cucinasse come Gordon Ramsay, ce lo vedi tu? Io per niente. Il tocco e la manualità devono essere nostri, al massimo puoi reperire ingredienti o spunti altrove, ma senza rinnegare completamente il nostro passato. Siamo figli della più grande tradizione operistica, da Verdi a Puccini e Donizzetti, tantissimi mostri sacri che hanno fatto la storia e ancora oggi rappresentano l’eccellenza italiana in quel settore. Non dico che dobbiamo tutti seguire le orme de Il Volo, ma nemmeno di artisti che appartengono a culture lontane anni luce dalla nostra. Anche perché non potrà mai interessare all’estero una certo tipo di musica riciclata, italianizzata e non italiana». 

Curiosità personale, come sei riuscito a sopravvivere per così tanto tempo al reggaeton?

«Ci si riesce, dai (ride, ndr). Posso dirti che mi è mancato davvero tanto il pop all’italiana, lì passano solo musica estremamente melodica o regaeeton, che è un genere fenomenale perché fa dei numeri importantissimi e abbraccia una fascia di pubblico molto ampia. Ho vissuto a contatto con ragazzi cileni, venezuelani e argentini, letteralmente attratti da questo sound che, a dire il vero, ormai sta spopolando ovunque». 

Ma questa crisi del mercato musicale ci riguarda in prima persona o hai avvertito un particolare malessere discografico anche oltreoceano?

Daniele Stefani«La crisi è generale, non è soltanto una nostra esclusiva. Posso parlarti della realtà cilena perché la conosco molto bene, ad esempio, un Festival importantissimo come Viña del Mar, conosciuto in tutto il mondo, negli ultimi anni ha perso la sua importanza, perché ha cominciato a puntare sugli ospiti e non più sulla “Competencia internacional“, ossia la gara dei giovani, che va in onda intorno all’una e mezza di notte, dopo che si sono esibiti per ore grandi nomi della musica latina ed internazionale. Da questo punto di vista, posso dirti che tutto il mondo è paese, anche se in modo diverso, perché in Cile ci sono tante realtà finanziate dallo Stato, come le attività teatrali oppure la moltitudine di Festival musicali organizzati in tutto il Paese nella stagione estiva, c’è molto interesse nei confronti dell’arte da parte del governo che, in questo modo, incentiva lo sviluppo della cultura in particolare tra i giovani».

Come valuti, in generale, l’attuale scenario musicale e artistico che stiamo vivendo?

«La nostra è un’epoca con troppo voyeurismo, apparire conta più del motivo per cui ci mettiamo in mostra, i social network stanno prendendo nettamente il sopravvento e noi di conseguenza ci adeguiamo a loro, quando all’inizio sembrava fosse il contrario. Cito una frase geniale di Rita Pavone, che dice: “Una volta tra l’artista e il pubblico c’era il palco, oggi non c’è più”, questo non significa che il cantante se la deve tirare, perché più di ieri il pubblico è il fautore del suo destino. Oggi la gente è sempre più incuriosita dalla sfera privata di un personaggio, per cui fare stories su Instagram è diventato un vero e proprio lavoro, un veicolo fondamentare per raggiungere più persone possibili». 

Facciamo un breve salto indietro nel tempo, quando e come ti sei avvicinato e appassionato alla musica?

«All’età di cinque anni ho iniziato a prendere lezioni private di chitarra, poi a dieci mi sono iscritto al conservatorio. Sono stati anni fondamentali perché mi hanno dato una base importante, anche se credo che per scrivere canzoni non sia strettamente necessariamente essere diplomati al conservatorio, ma per quanto riguarda la mia personale esperienza, sicuramente, mi è d’aiuto quando lavoro in studio, per avere un confronto e la stima dei musicisti e dei produttori con cui collaboro». 

Secondo la tua esperienza, il mondo della musica classica e il pop sono ancora così distanti come un tempo?

«Nella musica classica ci sono un certo rigore e uno studio costante che nel pop mancano. Generalmente rispetto tutti gli artisti, in particolare chi cerca di avvicinare mondi apparentemente distanti, come hanno fatto Luciano Pavarotti, Andrea Bocelli e Giovanni Allevi. Lungo il mio percorso di studi ho trovato diversi bigotti ma anche persone favorevoli ad un certo tipo di rinascita della musica classica. All’età di dieci anni ho partecipato alla trasmissione “Bravo bravissimo”, avevo un po’ il timore di dirlo al mio Maestro di conservatorio, invece si è dimostrato molto comprensivo, tant’è che mi ha voluto ascoltare interpretare “Caruso” e dopo mi ha fatto anche i complimenti, un ricordo che porterò sempre con me. Anche se quel mondo non mi appartiene più completamente, le mie radici e gli studi classici fanno parte del mio bagaglio, perché credo che la musica vada vissuta al 100%, senza limiti, poi ognuno si specializza in ciò che preferisce».

Daniele StefaniQuali ascolti hanno accompagnato la tua crescita artistica?

«A parte la musica classica, ho fatto dei voli pindarici pazzeschi, ho davvero ascoltato e apprezzato di tutto, da Lucio Dalla ad Elvis Presley, da Claudio Baglioni a Michael Jackson, da Robbie Williams ai Coldplay. Ho variato spesso, ma nell’adolescenza mi sono concentrato molto sul cantautorato italiano e sulle grandi voci internazionali, icone della musica pop ma anche del rock ‘n’ roll». 

Quali sono i brani che consideri più importanti per il tuo percorso e che ti rappresentano di più?

«Parto sicuramente da “Un giorno d’amore”, perché ha rappresentato la mia nascita discografica, poi “Chiaraluna” mi ha permesso di calcare il palco dell’Ariston di Sanremo, entrambe mi hanno aperto le porte di un sogno e fatto conoscere al grande pubblico. Sono molto affezionato a “Il punto è che ti amo”, un pezzo del mio secondo album, non è uscito come singolo, a cui tengo particolarmente. Infine, il brano “Oltre ogni senso” che ha dato il titolo allo spettacolo tradotto nella lingua dei segni, un’esperienza artistica e umana pazzesca».

Con questo nuovo progetto sei tornato a collaborare con Giuliano Boursier. Com’è stato ritrovarlo e che sapore ha per te questa reunion?

«Con Giuliano, negli anni, non ci siamo mai persi, lui è un grandissimo produttore ma anche un amico, mi conosce molto bene e, lavorativamente parlando, lo considero un perfezionista perché cura ogni minimo dettaglio, nelle voci in particolare. Mi affido totalmente al suo parere esperto, obiettivo e lucido. Poi, ovviamente, ci sono stati dei momenti di confronto, ma siamo riusciti a ritrovare l’equilibrio e la complicità che ci hanno permesso di realizzare i miei primi due dischi. C’è una grande stima e la massima fiducia da parte di entrambi, questo è importante ai fini del risultato finale».

Avete pensato di lanciare “Italiani” anche all’estero?

«Si, sicuramente è un pezzo che ha il giusto compromesso tra sound e melodia, che strizza un po’ l’occhio a sonorità internazionali ma ha una sua matrice più tradizionale e italiana. Molto probabilmente faremo anche una versione in spagnolo, ma più avanti, per il momento ci dedichiamo completamente a questo emozionante ritorno a casa».

Per concludere, qual è il messaggio che vorresti trasmettere al pubblico, oggi, attraverso la tua musica?

Daniele Stefani«Più che un messaggio vorrei trasmettere degli spunti di riflessione. In questa mia fase artistica, definisco le mie canzoni come dei quadri emozionali, in passato ho parlato soprattutto d’amore, oggi non è più così. Fondamentalmente, mi piacerebbe comunicare emozioni vere, quelle che si vivono quotidianamente. L’invito che faccio al pubblico è quello di ritrovare la curiosità, la voglia di andare a ricercare ciò che non si conosce, lo dico come artista, senza filtri, ho bisogno dell’ascolto attento delle persone e del loro sincero riscontro. Solo andando a curiosare oltre quello che viene costantemente proposto, si può scoprire qualcosa di nuovo, che poi può piacere o meno, ma noi artisti abbiamo bisogno di più spazio per far conoscere i nostri singoli progetti».

Ne approfitto per ringraziare personalmente tutti gli appassionati di musica che sono arrivati fino alla fine di questa lunga ma piacevole chiacchierata (durata circa un paio d’ore) e non si sono soffermati soltanto alle prime righe o alle prime domande…

«Beh, in effetti (ride, ndr), li ringrazio anch’io! Chiudo dicendo: siate curiosi, perché la curiosità sfama il mondo».

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.