A tu per tu con il cantautore comasco, che rompe un silenzio discografico durato per quindici anni
Non lascia nulla al caso Tiziano Gerosa, che per il suo ritorno resta fedele a se stesso e ad un certo tipo di sonorità senza tempo che riportano attenzione sulla canzone d’autore. “Adesso sì”, disponibile nei negozi tradizionali e in tutti gli store digitali dal 25 maggio, contiene tredici brani inediti ed è frutto dell’incontro con il noto sassofonista Claudio Pascoli, con il quale ha progettato questo ritorno dopo quindici anni di assenza dalle scene musicali.
Ciao Tiziano, partiamo dal tuo nuovo album “Adesso sì”, da quale idea iniziale sei partito e com’è nato questo disco?
«In realtà il mio ritorno doveva essere come autore, poi ho cominciato a raccontare di me e per me. Ci ho preso gusto, ed incoraggiato da amici musicisti, ho messo insieme una band di numeri uno come potete sentire nel disco ed i pezzi li ho scritti strada facendo anche pensando a loro ed al suono che avevo in mente».
Tra i tredici inediti presenti, come mai hai scelto come singolo apripista l’omonima title track?
«Perché tocca un argomento che riguarda tutti. Il caso, che spesso fa sì che la tua vita prenda una direzione piuttosto che un’altra».
Com’è nata l’idea del videoclip della canzone?
«Facendo scarabocchi, cercavo un’idea ed ho capito che il disegno poteva essere la soluzione. Ho quindi trovato Emanuela Bartolotti che, da ottima disegnatrice quale è, mi ha subito letto nel pensiero».
Un album con sonorità senza tempo che richiamano alla grande tradizione della canzone italiana, chi sono stati i tuoi riferimenti e come valuti l’attuale scenario discografico?
«Come riferimento italiano il primo sicuramente Lucio Battisti. In seguito Lucio Dalla e Pino Daniele. A parte l’area rap o trap che non seguo, mi sembra che la Musica con la M Maiuscola sia piuttosto latitante».
Facciamo un salto indietro nel tempo, quando e come è nata la tua passione per la musica?
«Mio padre era un discreto cantante lirico amatoriale nonché suonatore di mandolino ed armonica a bocca. Credo che sia partito tutto da lì».
C’è un incontro che reputi particolarmente importante per il tuo percorso artistico?
«Il mio primo maestro di flauto traverso, che mi lasciava suonare oltre a Bach anche la musica degli anni ’70».
Hai esordito negli anni ‘80, c’è qualcosa che rimpiangi, discograficamente parlando, di quel momento storico e cosa, invece, reputi più funzionale oggi?
«E’ tutto molto più semplice. Il digitale rispetto all’analogico di quel tempo ha facilitato le cose ma non sempre il risultato ne ha guadagnato. Dal punto di vista creativo invece credo che quegli anni siano irripetibili».
Sul finire degli anni 90’ è arrivato il tuo ritiro dalle scene, ti va di raccontarci i motivi che ti hanno portato a quella scelta?
«Servirebbe troppo tempo per raccontare infinite storie. Col tempo però si impara che bisogna essere con la cosa giusta, nel posto giusto e nel momento giusto. Nel mio caso c’è sempre stato qualcosa di non giusto».
Poi, a distanza di oltre quindici anni, la scelta di rimettersi in gioco. Cosa ti è mancato di più di questo mondo?
«A dire il vero niente. Mi sembrava di avere spento tutto in modo definitivo, ma evidentemente l’inconscio lavorava…».
Per concludere, qual è il messaggio che vorresti trasmettere, oggi, al pubblico attraverso la tua musica?
«Vorrei che chi ascolta la mia musica dicesse: è proprio quello che volevo dire io, oppure, è proprio così che mi sento. Il messaggio non può che essere positivo».
Nico Donvito
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