A tu per tu con l’artista goriziana alla sua prima opera discografica, anticipata dal singolo “Io e la collina”
Ciao Paola, benvenuta su RecensiamoMusica. Partiamo da “Facile”, il tuo album d’esordio, com’è nato e cosa rappresenta per te?
«Rappresenta sicuramente l’inizio di un percorso artistico ben preciso (che mi vede in veste di cantautrice, per cui autrice ed interprete dei brani che scrivo) che desidero da tempo.È nato dopo una lunga gavetta artistica che ha compreso e che tutt’ora comprende studio musicale e di tecnica vocale, anni di esperienza come cantante in vari generi, varie situazioni (scherzando dico che ho cantato un po’ con tutti, un po’ dappertutto , un po’ di tutto) e concorsi prima come interprete e successivamente come cantautrice. Da “Facile” ho in progetto di portare avanti, come scrivevo, un percorso che mi permetta di vestire i panni di “me stessa” e di portare alle persone il mio progetto. Uno degli obiettivi è esibirmi nei teatri con brani miei».
C’è una veste precisa che hai voluto dare alle tracce presenti, sia a livello di sonorità che di testi?
«Per quanto riguarda i testi, per quanto posso cerco di non essere mai banale e di fare un po’ di lavoro di ricerca. Amo i giochi di parole, il fatto a volte di affiancare musiche “leggere” con testi “forti”, amo i contrasti, la scelta delle parole in base al loro suono, amo descrivere stati d’animo con molte immagini. Ho ascoltato ed ascolto molto i cantautori della “vecchia” scuola e mi sono innamorata di alcune figure utilizzate per rendere emozioni, situazioni e stati d’animo. Inoltre amo leggere libri e poesie; in generale amo la parola, trovo interessante la possibilità di “dipingere” la realtà in modo diverso a seconda delle parole utilizzate e dei loro incastri e ammiro chi riesce a farlo con maestria ed efficacia. Questo per ciò che concerne l’aspetto generale, razionale. Per quanto riguarda invece l’approccio pratico a un brano ancora da scrivere in realtà il tutto è molto più “semplice” e fluido: imbraccio la chitarra, mi faccio attraversare dalle storie che desidero scriver e e poi inizio a cantare. Le parole e la musica escono insieme. Poi ovviamente c’è un lavoro finale di “lima”, che a volte si rivela corposo e altre è quasi assente. La veste dei brani invece è frutto di un lavoro di equipe mio e dei musicisti che hanno lavorato a questo disco: ognuno di loro ha apportato delle idee di arrangiamento».
Quanto è importante per la condivisione e chi ha collaborato alla realizzazione di questo lavoro?
«È una cosa che ho chiesto fin dall’inizio: oltre al fatto che sapevo che stavo lavorando con persone meravigliose di ottimo livello artistico, desideravo che questo lavoro fosse almeno parzialmente una creazione condivisa, che ognuno lo sentisse un pochino “suo”, oltre al fatto che io non ho le conoscenze tecniche e musicali per scrivere le parti di ogni strumento meglio di come possa farlo il musicista stesso, che conosce a menadito il proprio lavoro. Mi sarei potuta avvalere di un arrangiatore ma ho scelto di procedere in questo modo: sapevo che ognuno di noi tiene a questo progetto, conoscevo le capacità enormi dei musicisti e ho voluto che questo fosse un percorso da vivere insieme. Sono felice del risultato. I nomi dei miei collaboratori sono: Sergio Giangaspero (chitarre e cori), Simone Serafini (basso, contrabbasso, violoncello), Ermes Ghirardini (batteria e percussioni), Gianpaolo Rinaldi (pianoforte, tastiere, organo hammond), Mirko Cisilino (tromba e trombone), Nevio Zaninotto (sax), il tutto registrato e missato da Francesco Marzona presso il Birdland studio».
Una sorta di cantautorato 2.0, a metà tra il passato e il presente. Personalmente, ti collochi in un genere particolare?
«Grazie, mi piace un sacco “cantautorato 2.0”! Mi colloco tra il cantautorato ed il pop, suppongo, non tanto per scelta ma proprio per un dato di fatto: credo che i brani di “Facile” possano essere collocabili in questo spazio. Personalmente sono attaccata alla vecchia scuola di cantautori come una cozza allo scoglio. Ma penso si sia capito. Quando scrivo, in realtà, agisco in modo spontaneo e senza volontà di collocazione precisa a priori. Ma sono felice che riesca a ricordare i cantautori della vecchia scuola. I testi per me hanno un ruolo importantissimo (come dovrebbe essere, visto che lo “scheletro” delle canzoni è costituito da testo e musica, ma alle volte al testo non viene data una grande importanza). Scrivere i testi con una certa cura e divertendomi con le parole è proprio una mia caratteristica, per cui penso che anche i futuri brani avranno questo stampo».
“Io e la collina” è il pezzo che hai scelto per trainare l’intero progetto discografico? Come mai questa scelta?
«Non è stata per niente una scelta “Facile”: la decisione di portare questo brano a rappresentare in un certo senso il disco ha richiesto tempo, e tuttora credo che nessuno dei 13 brani possa rappresentare questo progetto. “Facile” include brani molto diversi tra loro, sia come “intenzione sonora” che come “mood”. “Io e la collina” è un brano immediato, non troppo “leggero” ma nemmeno troppo “pesante”, che ho pensato potesse essere abbastanza radiofonico. Mi sembrava potesse stare in una sorta di “terra di mezzo” tra i vari brani».
Torniamo indietro nel tempo, come e quando ti sei avvicinata alla musica?
«Sono sempre stata vicinissima alla musica, si trattava soltanto di accorgersi che quella era una passione forte e non soltanto un hobby. Contrariamente a quanto succede spesso, nessuno tra i membri della mia famiglia faceva musica, anzi. Tutt’altro, ma mio fratello aveva studiato chitarra per un periodo e c’era la sua acustica parcheggiata in tavernetta da qualche anno: un giorno mi è stato insegnato 1 accordo e 1 ritmo… ho imparato il resto da autodidatta e da lì ho iniziato a trascorrere ore e ore nella famosa cantina fino a che la voce me lo consentiva: cantavo di gola, per cui risalivo in casa ogni volta quasi afona (ma contenta). Indovina cosa cantavo: sempre i cantautori. Poi sono entrata a scuola di canto, di cui non mi importava molto prima di entrarci: lo facevo solo per evitare conseguenze alle corde vocali ma non avevo intenzioni di alcun tipo. Mi bastava strimpellare in cantina. Poi mi hanno fatto cantare col microfono sulla classica “base”, e lì nella mia mente è esplosa una passione che faticavo a tenere a freno. Colpo di fulmine, fortissimo. Ho iniziato a fare pianobar e a cantare in mille situazioni, poi ho iniziato a scrivere cose mie e a partecipare a concorsi via via più importanti… e oggi sono qui, con la passione immutata per la musica, con il mio primo disco, autoprodotto, in mano. E la voglia di crescere».
Quali ascolti hanno ispirato e accompagnato il tuo percorso?
«Come scritto più su, amo i cantautori, ma non solo. Amo in generale (ed ascolto) i brani che hanno un contenuto, sempre con la premessa che il tutto è sempre soggettivo, perché ognuno filtra la realtà secondo il proprio vissuto. Amo l’emozione sia nell’interpretazione che nella scrittura e poi nella resa dei brani. Ti faccio qualche esempio di cose che mi scuotono davvero e che ho ascoltato fin da bambina e che tuttora ascolto, emozionandomi come la prima volta: “Vecchio frac” (Modugno: una poesia incredibile), “Il pensionato” (Guccini: quando la ascolto o la canto credimi, sento l’odore della minestra. Te la descrivo anche: è una minestra di pasta e fagioli; calda, che impregna negli anni i muri di casa); “Il compleanno” (Guccini), “L’orologio americano” (Fossati), “Bella senz’anima” (Cocciante), “Lo scrutatore non votante” (Bersani), “La donna cannone” (De Gregori), “La costruzione di un amore” (Fossati), “Lo shampoo” (Gaber), “Destra-sinistra (Gaber), “Ciao amore” (Tenco), “Vedrai vedrai (Tenco), “Albergo ad ore” (la amo nell’interpretazione live di Gino Paoli, quella che inizia con il parlato), “L’ubriaco (Guccini)”. Queste sono le prime canzoni che mi sono venute in mente, ma potrei andare avanti per ore. Poi i brani anni ’60, canzoni come “Se vuoi uscire una domenica”, “Se stasera sono qui”, in ognuna c’è qualcosa di meraviglioso».
Con quale spirito ti affacci al mercato e come valuti il livello generale dell’attuale settore discografico?
«Mi affaccio a questo mondo con determinazione, con una certa voce bambina che sogna e che devo cercare di zittire in tempo distraendola, altrimenti rischia di farsi male. Ho sostituito la bimba impaziente con la consapevolezza del fatto che in assenza di un grande e capace produttore alle spalle si arriva alle persone poco a poco, piano piano, a passo rilassato da lumachina. C’è da dire però che ad oggi sono felice di aver autoprodotto questo primo lavoro: mi ha permesso di crescere notevolmente da diversi punti di vista. Poi in futuro, chissà. Della discografia di oggi non mi piace il fatto che a volte si sfornano giovani (spesso molto molto capaci) in una sorta di catena di montaggio, mi infastidiscono quelle che personalmente sento come canzoni “vuote”, mi dispiace che non ci sia più l’attenzione che c’era una volta. Sono cambiati i tempi, è cambiata la velocità di vivere gli impegni, siamo in un mondo frenetico e con ogni evidenza la discografia si è parzialmente adeguata al tempo di oggi. Trovo in alcune canzoni “gettonate” assenza di cura per il dettaglio, molti brani sembrano scritti in modo estremamente simile tra loro. Non mi piace il mondo delle canzoni-Kleenex. Ma qui e là ci sono ancora delle gran belle produzioni (sempre gusto personale), per cui non sempre tutto il mondo della discografia va avanti con lo stampino. Ci sono delle belle cose, ma ho sentito molte cose alla radio in bar che mi hanno portata a bere molto in fretta il mio caffè. Punti di vista».
Qual è la lezione più grande che hai appreso dalla musica?
«Ne ho apprese tante. Prima fra tutte, una lezione che dovrebbe essere ovvia ma che per me non lo era, ovvero il fatto che bisogna iniziare a “fare”, invece che perder tempo a lamentarsi. Io sognavo molto e lavoravo zero. Inoltre ho iniziato pian piano ad avere una maggiore stima nei miei confronti e meno timori nei confronti di tutto e tutti; mi ha insegnato a vedere che unendo la passione e l’impegno si possono ottenere dei bellissimi risultati; mi ha insegnato a imparare a dire “no” a opzioni che non ritenevo adeguate al mio progetto. Ho imparato a essere più forte come persona, più competente dal punto di vista professionale. E poi ho confermato la direzione della mia vita, che era già quella della musica, ma adesso la strada è molto più focalizzata e precisa».
C’è un momento o un incontro che reputi fondamentale per la tua carriera?
«Non ne ricordo uno in particolare. Il mio è stato un percorso abbastanza lineare, privo di svolte decisive».
Tra i vari premi e riconoscimenti che hai ricevuto negli anni, a quale sei maggiormente legata e perché?
«Ogni premio ricevuto, ogni situazione vissuta mi ha regalato qualcosa».
Da cosa trai principalmente ispirazione per le tue produzioni?
«Dal quotidiano, dal modo personale in cui filtro le cose di ogni giorno (l’importanza delle piccole cose, la non-comunicazione tra le persone vestita da un formale “come va?”, la costruzione di una passeggiata immaginaria tra le vie del borgo, il tema della frenesia dei giorni nostri, le conseguenze di mobbing e burnout nel lavoro, il dramma silenzioso di una donna che vive un esproprio, il mio personale punto di vista sul gettonatissimo sole, cuore, amore & compagnia)».
Quali sono i tuoi obiettivi futuri e/o sogni nel cassetto?
«L’obiettivo è quello di scrivere ancora canzoni, di far arrivare questo disco a più persone possibili, di suonare nei teatri. I sogni invece includono la possibilità di vivere soltanto di musica, di poter fare musica a fianco ai grandi artisti e cantautori che ho sempre ascoltato e da cui prendo esempio. Ho altri sogni che non scrivo, sempre in merito alla musica: qualcuno perché ci son cose che non si possono chiedere e qualcuno per il timore di sembrar ridicola. Ma ci sono. Passo passo sto lavorando alla realizzazione degli obiettivi, che comunque avvicineranno la possibilità di realizzare qualche sogno. Spero di realizzarli tutti, o almeno di portare a termine ciò che dipende da me: il resto non è troppo nelle mie possibilità. I sogni includono il fatto di poter essere prodotta in un disco futuro da un autore che stimo moltissimo e che non nomino proprio per il timore di spararla troppo grossa… ma stiamo scrivendo di sogni. Ripeto, al momento parcheggio i sogni e mi focalizzo sulla realizzazione degli obiettivi. Poi vedremo quel che succederà, intanto si lavora».
Alla luce di tutto quello che ci siamo detti, per concludere, quale messaggio vorresti trasmettere al pubblico, oggi, attraverso la tua musica?
«Vorrei tanto poter trasmettere emozione. In un momento storico come questo, in cui rischiamo quotidianamente di smettere di stupirci e di emozionarci davanti alle cose che ci capitano costantemente sotto al naso, vorrei (in realtà è ciò che cerco di fare ad ogni concerto) creare uno momento spazio-temporale in cui, per un’ora o poco più, si riesca insieme a ricreare l’atmosfera magica dell’immersione in un mondo di emozioni, di condivisione, di sensazioni. Desidero che le persone, rincasando da un mio concerto, portino con sé delle emozioni, dei modi “nuovi” di vedere le cose, degli spunti di riflessioni. Desidero anche che ci sia un dialogo con il pubblico, uno scambio reciproco. Desidero un’ora per tutti noi a contatto con le emozioni, lontano dalla frenesia della quotidianità. Vorrei lasciare qualcosa e per un attimo poter dare agli altri quel che capita a me quando scrivo o quando canto, ovvero la possibilità di tornare a stupirsi, di vedere il mondo da un’angolazione diversa. Quando scrivo, quando canto do tutto quel che ho, senza filtri. Mi faccio attraversare dai brani per poi riuscire a dare agli altri nel modo più efficace possibile quel che provo. Questo desidero».
Nico Donvito
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