Tempo di nuova musica per l’ex leader dei The Groovers, che pubblica un nuovo progetto discografico
Undici inediti che rappresentano il meglio dell’attuale produzione di Michele Anelli, rocker novarese che ritorna sulla scena discografica in veste solista, dopo aver militato per diversi anni con le band Thee Stolen Cars e The Groovers. “Divertente importante” è il titolo del disco che segna una svolta decisiva nella sua carriera, anticipato dal fortunato singolo “Il migliore sei tu”.
Ciao Michele, partiamo dal tuo disco “Divertente importante”, com’è nato e cosa rappresenta per te?
«Circa sei mesi dopo l’uscita di “Giorni usati”, avvenuta alla fine di gennaio del 2016, e a due di distanza dal primo lavoro solista, ho sentito l’esigenza di proseguire un percorso artistico che iniziava a prendere una sua forma ma che non era ancora ben focalizzato. Il primo brano scritto per “Divertente importante” è stato “Est”. In quel momento ho preso la decisione di come avrebbe potuto suonare il nuovo lavoro. Pochi strumenti, un suono omogeno e testi meno ermetici. Con queste convinzioni ho tracciato quello che è diventato il mio ultimo lavoro, che sento maturo e mi soddisfa in pieno. È la conferma che cercavo come cantautore e compositore di brani in italiano. Dopo vent’anni passati a scrivere e suonare un certo tipo di rock in lingua anglosassone, ho preso le misure con la nostra lingua dopo una ricerca costante in più campi, compreso quello popolare, e sento di aver raggiunto una soglia di maturità artistica importante».
Undici brani scritti interamente da te, quanto conta la credibilità per un cantautore?
«La credibilità è la prima cosa che cerco in un autore. Per me è indispensabile essere me stesso in ogni situazione, compresa quella musicale. Anche a discapito della notorietà. Quello che canto è quello che penso. So di essere una persona trasparente che difficilmente riesce a simulare uno stato d’animo. Non è semplice convivere con questa modalità espressiva perché non riuscire a nascondere le emozioni, positive o negative, a volte ti rende vulnerabile».
Un disco frutto di un abile lavoro di squadra, chi ti ha aiutato nelle varie fasi della realizzazione?
«Dopo aver composto alcuni brani, ho cominciato a lavorare a stretto contatto con il tastierista Andrea Lentullo, che è stato un eccezionale compagno di avventura per tutto il tempo che abbiamo dedicato alla stesura di questo album. Per circa quattro mesi ci siamo visti tre/quattro volte alla settimana, e in ognuna di quelle giornate abbiamo dedicato in media otto/nove ore alla stesura e agli arrangiamenti delle canzoni. Durante quel periodo ho scritto circa venti brani che, una volta terminati, sono stati sottoposti al produttore Paolo Iafelice. Fatta una prima scrematura e corretto alcuni dettagli richiesti da Paolo, abbiamo provato i brani con Nik Taccori alla batteria. Il suono creato con la chitarra acustica e il piano elettrico Wurlitzer ha avuto la quadratura perfetta con il groove di Nik, il quale è riuscito a entrare in ogni brano con delicatezza e calore. Successivamente ho chiesto a mio figlio Elia di arrangiare alcuni brani con la sua chitarra elettrica, e il suo estro e la sua dedizione ai dettagli ci ha permesso di completare questo lavoro. Il suono finale è frutto del lavoro di Paolo Iafelice che ha saputo interpretare alla perfezione ciò che ci eravamo prefissati. Poi la sensibilità artistica del fotografo Paolo Sacchi e della grafica Cristina Menotti ha fatto tutto il resto, completando e confezionando quello che ritengo il mio lavoro più maturo e completo».
Quali sono le innovazioni che hai apportato rispetto ai tuoi precedenti lavori?
«Una cura alla stesura del brano nei suoi minimi dettagli e la ricerca di un suono uniforme. In passato ho composto quasi sempre pensando al suono della band, sapevo cosa avrei potuto ottenere dai vari musicisti che, nel corso degli anni, si sono alternati all’interno del gruppo. Da una parte semplifica il lavoro di scrittura perché sai che, anche a un pezzo debole, puoi porre rimedio, aiutato dalla band che con un assolo, un sottofondo o una percussione ti può aiutare con l’arrangiamento finale. Questa è una modalità che, ora, sento di aver superato. Voglio che un brano, anche solo con l’accompagnamento della chitarra acustica, possa avere una sua solidità compositiva e reggere il confronto sul palco in perfetta solitudine».
Da cosa trai principalmente ispirazione per le tue canzoni?
«Per i testi dalla vita quotidiana e dai libri che, da avido lettore, consumo in grande quantità. Per il suono dalle mie passioni personali per la musica. In “Giorni usati” ho volutamente esplorato una molteplicità di suoni che appartengono ai miei ascolti casalinghi; con “Divertente importante” fin da subito volevo il calore del soul abbinato a una scrittura folk. In un modo o nell’altro confluiscono, nei miei brani, le mie passioni musicali».
Facciamo un breve salto indietro nel tempo, quando e come è nata la tua passione per la musica?
«Grazie ai dischi di mio fratello maggiore e alle trasmissioni radiofoniche dell’epoca come, per esempio, Alto gradimento. Ricordo anche che i miei genitori avevano, oltre al liscio romagnolo, alcuni 45 giri di Gianni Morandi. Poi intorno al 1976, a 12 anni, arrivò la mia folgorazione per Edoardo Bennato, Eugenio Finardi e l’hard rock. Nel 1980, a 16 anni, una miscela di Clash, Springsteen, U2, Cure mi ribaltò come un calzino e cominciai a esplorare il mondo musicale. Mi ricordo ancora adesso le copertine della rivista musicale “Il Mucchio selvaggio”, in particolare una con il titolo Sweet soul music. Puoi immaginare che mondo avevo scoperto».
Quali artisti o generi musicali hanno accompagnato la tua crescita?
«Mi considero un fan di molti artisti e band. A casa posseggo qualche migliaio di titoli tra vinile, cd e cassette. Amo il soul, quello della Stax, della Motown ma anche delle etichette minori. Amo il punk rock, senza il quale non avrei mai iniziato a suonare. Adoro il rock’n’roll in tutte le sue sfaccettature. Ho dei punti fermi: i Clash e Joe Strummer, i Creedence Clearwater Revival e Bruce Springsteen soprattutto nel periodo Darkness e Nebraska e Tom Petty, adoro i Replacements, i The men they couldn’t hang e Billy Bragg, i Fleshtones e gli Hoodoo Gurus. Negli ultimi anni mi sono perso dentro le alchimie dei Wilco che trovo strepitosi, poi Eels, National, BMRC ma lista è lunga…».
In passato sei stato fondatore e frontman di ben due band, i Thee Stolen Cars e i The Groovers. Come ci si sente in solitaria?
«Libero di esplorare e senza schemi da rispettare. Posso lavorare più a lungo sui progetti che ho in mente, senza esigenze di scadenze e responsabilità verso gli altri di essere sempre pronto a fare qualcosa. Sia con gli Stolen Cars che con i Groovers ho vissuto esperienze fantastiche che mi accompagneranno per sempre. Oggi però sto bene in questa dimensione sonora e poi soli non si è mai perché è bello collaborare, si impara sempre qualcosa di nuovo».
Se ti guardi allo specchio quale immagine vedi?
«Una persona coerente».
Come valuti l’attuale scenario discografico e il livello generale del talento?
«Mi impressiona la quantità delle proposte musicali, diversamente dagli anni ’80 è più semplice produrre un disco e, conseguentemente, più difficile farlo ascoltare. Non so se il talento sia misurabile perché oggi viene spesso confuso con la capacità tecnica e crea confusione nelle nuove leve. Mi chiedo se oggi avrebbe avuto spazio una voce come quella di Bob Dylan…».
Alla luce di tutto quello che ci siamo detti, per concludere, quale messaggio vorresti trasmettere al pubblico, oggi, attraverso la tua musica?
«Di essere coerenti nella vita e solidali verso gli altri. Di essere persone aperte e innamorate del futuro, rischiando qualcosa. Di non arrendersi alle prime avversità. Di trovare il tempo per cose importanti senza tralasciare quelle divertenti».
Nico Donvito
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