I cambi di formazione sono un bene o un male per gruppi e band?
I cambi di formazione sono nel DNA della maggior parte dei gruppi e delle band, un po’ come gli acuti sgolati nelle canzoni di Laura Pausini o le rime sole-cuore-amore-mare nei tanti, troppi ed inutili tormentoni estivi di oggigiorno. Ma sono davvero un bene per la musica e per le carriere dei diretti interessati?
Risulta assai difficile fornire un’adeguata risposta univoca anche perchè, nel corso del tempo, spesso abbiamo assistito a rivoluzioni di formazioni, a consensuali o polemici scioglimenti che, però, quasi mai hanno generato i medesimi risultati. Prendiamo in esame il caso più recente dei Dear Jack o quello più storico dei Matia Bazar: se i primi non hanno saputo reinventarsi adeguatamente dopo l’addio del frontman Alessio Bernabei, i secondi sui cambi di formazione c’hanno, per così dire, costruito la propria quarantennale storia passando da Antonella Ruggiero a Laura Valente, Silvia Mezzanotte, Roberta Faccani e l’ultima Luna Dragonieri. I Timoria sono riusciti a resistere e reinventarsi dopo la fuoriuscita di Francesco Renga sostituendo, il già presente, Omar Pedrini. Lo stesso sono riusciti a fare anche i Litfiba che, dopo l’addio di Piero Pelù nel 1999, sono riusciti ad inserire con buoni riscontri le voci di Cabo Cavallo e Filippo Margheri prima di riabbracciare lo storico leader nel 2009. E altri casi celebri sono, ovviamente, quelli dei Nomadi, della PFM o dei New Trolls. Ma cos’è che differenzia un corso piuttosto che un altro?
Inutile negare che una band è, e deve essere, molto di più che il proprio leader: essere identificati dal pubblico esclusivamente con il frontman fa di una band esattamente ciò che non deve essere. Un gruppo è, prima di ogni altra cosa, un marchio, un’unicità di intenti e d’identità. Ecco, perchè, cambiare formazione può essere altamente pericoloso, si rischia di stravolgere quegli intenti e quell’identità che il pubblico, fino a quel momento, ha conosciuto ed apprezzato. L’unica ancora di salvezza è quella di mettere in atto una “rivoluzione pacifica”, una sostituzione, cioè, che non intacchi l’anima del gruppo e della sua musica conservando e, anzi, consolidando il marchio correndo d’altra parte il rischio, però, di cambiare senza cambiare davvero, di dar vita ad un karaoke nostalgico.
Insomma quello del cambio di formazione per una band risulta quanto mai un intricato rebus a cui, ahimè, non esiste ancora una esclusiva ed esaustiva soluzione se non l’anteporre ai vari membri l’importanza e l’essenza storica di un gruppo, di un nome. La domanda che, però, sorge spontanea è: basta il rispetto assoluto del passato per confermare quanto fatto oppure gli stravolgimenti del caso rischiano di creare soltanto impure marchette capaci tuttalpiù di presenziare alle sagre di paese, ai pianobar o ai Festival di karaoke, imitazioni o cover band senza una propria vera identità?
Sul tema interviene anche il giornalista Maurizio Lorys Scandurra, con una disamina attenta e oggettiva: “Che gli italiani siano presuntuosi e litigiosi, lo sappiamo bene. Di querelle inutili sono piene le aule dei tribunali, altrettanto le storie dei gruppi. Specialmente quelli nostrani di ieri, oggi, un po’ di tutte le epoche. In principio furono I Quelli con il poliedrico Teo Teocoli alla voce. Poi divennero PFM con Bernardo Lanzetti come cantante, seguito da Franco Mussida e ormai da anni in pianta stabile dall’instancabile e camaleontico Franz Di Cioccio: dopo 45 anni realmente suonati in giro per il mondo, potrebbero pure cambiare anche tutti i componenti, ma restano pur sempre mito allo stato puro. La gente li segue e li ama anche per questo: sono una bandiera di credibilità assoluta che sventola felice, qui e anche all’estero. Veri numeri uno: hanno saputo creare un’immortale identità, uno spessore concreto che supera persino i destini terreni degli stessi.
Poi vennero i Nomadi, che su ben 5 cantanti intercalati nel loro lungo discorso musicale due soli sono davvero passati alla storia: Augusto Daolio e Danilo Sacco. Idem, per numero, anche i Matia Bazar, ove tre soltanto, a oggi, sono le interpreti d’eccezione ad aver fatto del glorioso marchio ligure un’icona irraggiungibile: Antonella Ruggiero (era di platino), Laura Valente e Silvia Mezzanotte (era d’oro a pari merito).
Senza dimenticare casi conflittuali quali quelli dei New Trolls e dei Delirium: i primi sparsi qua e là nel mare dello showbusiness in un continuo gioco al rimpasto e alla diaspora tra formazioni varie, con vecchi e nuovi membri, che pretendono tutte di essere ‘La Storia’, ‘La leggenda’, ‘Il Mito’, ‘Ut’ e ‘Of’ dei New Trolls: aggiungendo quella magica parolina che può potenzialmente dribblare facilmente sentenze giuridiche passate da tempo in giudicato con cui si inibisce l’impiego di una marchio se non sussistono fattualmente condizioni di convivenze e connivenza di determinati nomi sotto di esso. Il gioco delle locuzioni e preposizioni, semplici e complesse, nella musica non paga. Questo capita spessissimo nella musica italiana, e anche lungo le strade, d’estate: basta infatti leggere i manifesti dei cantanti famosi per vedere scritte come ‘Ex leader’, ‘Già con i…’, ‘Già nei…’, e via dicendo. Del resto, tutti devono lavorare, lo capisco bene. Ma ricordo sempre altrettanto che è l’unione a far la forza, la differenza.
Mentre i Delirium, invece, hanno conosciuto storicamente solo un barlume di luce vera a fine anni ’70, con l’ingresso del bravissimo e carismatico cantante e polistrumentista Rino Dimopoli alla guida della band al posto del Maestro Ivano Fossati, per poi perdersi anch’essi in anni recenti in cause, scismi e scissioni. Idem per I Nuovi Angeli, che hanno avuto alla voce per un certo lasso di tempo nella seconda metà degli anni Duemila anche il valente frontman e cantautore Valerio Liboni, al posto dell’altrettanto storico Paki Canzi: i due non riescono proprio ad andare d’accordo, ed è un vero peccato.
La Toscana, in Italia, musicalmente parlando è la regione che ha prodotto il miglioro risultato, in termini di vita di gruppo: due vocalist hanno cambiato i Litfiba, una soltanto (di nome, Marquica) i Dirotta Su Cuba. Entrambi i gruppi, casuale coincidenza, proprio nel 2009, sono integralmente tornati alle formazioni originali: lontanissimi, e forse ormai irraggiungibili, i fasti d’un tempo, ma pur sempre in attività: e questo è ciò che più conta. Meglio vivi che dispersi, senza dubbio.
A oggi, il miglior ensemble nazionale che è riuscito nell’intento di ricomporsi nella prima line-up, bissando il successo degli esordi sono Le Vibrazioni: anche l’unico in linea, vuoi anche per una mera questione generazionale, con il trend dei gusti artistico-musicali attualmente imperanti.
Sul fronte degli ‘oldies’, invece, freschi di riuscita rinascita sono anche i Decibel di Enrico Ruggeri, operazione artistica e commerciale insieme decisamente apprezzata e convincente. Auguriamo loro tutto il meglio, e lunghissima vita, come del resto sempre di cuore, nel bene, a tutti.
Perchè un gruppo finisce? Per ragioni caratteriali, pulsionali, istintuali, amorose, contrattuali, economiche, di questioni giurisprudenziali relative all’attribuzione di un marchio, di una quota societaria o di un’edizione musicale, incompatibilità con manager e staff, rapporti dare/avere, aumenti di cachet richiesti e negati, pretese fuorvianti e molto altro ancora. Oppure, semplicemente per puro caso, perché così vuole la vita, senza cercar per forza cause e concause altrove: anche i cicli terminano da sé, talvolta. Certo è che un po’ di buonsenso, umiltà e lungimiranza in più, nel caso di specie aiuterebbe. Ed eviterebbe altresì l’inutile riempirsi delle piazze con cantanti singoli per lo più simili a esuli che a veri e propri artisti degni di tal nome, e soprattutto capaci di dire ancora qualche cosa d’interessante al pubblico e alla musica“.
Ilario Luisetto
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