Andrea Mirò è uno di quei nomi che si riconducono automaticamente alla storia della musica italiana più aurea: artista che ha calcato il palco del Festival di Sanremo per ben 4 volte dai gloriosi anni 80 fino ai più recenti anni 2000 ma che nella sua carriera si è dedicata all’arte nel modo più ampio possibile comparendo come direttore d’orchestra proprio all’Ariston ma anche come presenza importante in diversi spettacoli teatrali. Nel corso del suo percorso artistico ha collaborato con i nomi più imponenti della musica (e non solo) come Enrico Ruggeri, Ron, Mango, Roberto Vecchioni, Nina Zilli, Eugenio Finardi, i Perturbazione, Andrea Molino e Giorgio Faletti. Ecco la nostra intervista a questa donna “dal multiforme ingegno” in merito all’uscita del suo ultimo album d’inediti (“Nessuna paura di vivere”):
E’ uscito ad aprile questo tuo nuovo disco “Nessuna paura di vivere”, l’8° in carriera. Che cosa ha in più questo disco rispetto ai lavori precedenti?
<<Essenzialmente è un disco più maturo non perché sia l’ultimo ma perché è ragionato e pensato in questo senso. C’è dentro la maturità di aver svelto dei suoni diversi ma soprattutto la libertà di aver fatto quello che mi sentivo di fare in questo momento per rappresentarmi il più possibile senza tener conto delle classifiche anche se non mi dispiacerebbe passasse per le radio. Credo che un artista debba fare questo, raccontare se stesso con la massima libertà senza cercare per forza di incontrare il gusto di un pubblico più vasto possibile>>.
Come mai hai scelto un titolo così importante per il periodo storico in cui viviamo dove ognuno di noi prova almeno un po’ di paura di fronte alla vita?
<<Questo disco è la manifestazione della voglia di non avere più paura, è una dichiarazione universale che coinvolge tutti gli aspetti della vita dell’uomo. Il mio è un invito a non sottostare a determinate regole comuni nella nostra società, solo così è possibile procurarsi la gioia che nasce dopo aver provato a fare altre cose che ci piacciono che le usanze comuni non prevedono di fare. Questo disco in tutte le sue sfaccettature è un incitamento a sentirsi liberi e non obbligati a dover indossare maschere imposte da altri>>.
Nel corso della tua carriera Sanremo occupa un luogo importante. Quattro partecipazioni all’attivo ma anche la presenza in altri ruoli nel corso delle varie edizioni del Festival come quello di direttore d’orchestra e di giurato di qualità. Che cosa rappresenta per te quel palco e che valore ha oggi nella musica italiana?
<<Quando sono salita per la prima volta sul palco dell’Ariston ero una ragazzina e quello è stato il primo palco su cui ho cantato. Ho un ricordo molto romantico di quell’esperienza e di quel luogo. In realtà il ricordo di quella prima volta in gara al Festival ha poco a che fare con il complesso mondo della discografia che sta dietro ad un progetto musicale e ad una partecipazione a Sanremo. Per me è stata un’esperienza pazzesca perché ho vissuto il Festival di Sanremo al suo massimo splendore per qualità musicale. Ovviamente non era quello che è oggi: la kermesse ha fatto moltissimi passi avanti considerando la dimensione televisiva che sovrasta oramai anche la musica di cui rimane poca traccia. Il palco dell’Ariston è fondamentale per lanciare messaggi sociali oltre che un progetto musicale: è uno spettacolo di costume che parla molto della condizione italiana sia nell’accezione buona che in quella meno buona. Ad oggi è, purtroppo, l’unica grande vetrina per la musica italiana; l’unica che ci è rimasta per questo credo abbia moltissima importanza per ogni artista che desidera far conoscere il proprio lavoro. Sono comunque convinta che sia la musica e l’artista a fare la differenza non il palco in cui si suona: può succedere che il progetto non venga compreso subito ma prima o poi raggiungerà il suo obiettivo magari in un’altra dimensione>>.
Al Festival ti abbiamo vista anche nell’insolito ruolo per una donna di direttore d’orchestra. Come mai non si è ancora arrivati ad una parità di genere in questa veste?
<<Semplicemente perché le donne non hanno ancora raggiunto la parità in nessuna circostanza. Esiste ancora una frangia di persone (comprese, a volte, le stesse donne) che sono restie a dare spazio anche alle donne nei ruoli dedicati tipicamente agli uomini per tradizione. Il retaggio culturale da cui deriva questo atteggiamento è antichissimo per cui per rimuovere tutto questo storico servirà ancora molto tempo. Fortunatamente nel nostro Paese siamo molto avanti da questo punto di vista, immaginiamoci la situazione in medio oriente… Io credo, però, che sia necessario non avere paura di vivere, per l’appunto, e mettersi in gioco affrontando i propri limiti che non sono mai una questione di genere. Quando scrivo un pezzo non mi capita mai di pensare di raccontare storie di uomini o donne in modo distinto. L’unica domanda che non mi faccio mai quando scrivo è proprio se a parlare sia un uomo o una donna piuttosto che un omosessuale o un transessuale. Il più grade insegnamento dei miei genitori è ognuno di noi è semplicemente un essere umano, il resto è irrilevante.
Nella title track di questo disco canti “che sia vero che gli amanti hanno tutte le fortune e nessuna paura di vivere”. E’ un incitamento a vivere il presente senza pensare al domani?
<<No, è un invito a cogliere l’occasione e vivere al momento. Non significa, però, non avere una proiezione rivolta al futuro. Quello che stiamo vivendo è il periodo storico in cui non c’è tempo per godere di ogni singolo momento passato con gli altri. La vera difficoltà dell’oggi è quella di rallentare i ritmi ricordandosi che non avere nulla da fare è il momento migliore per creare>>.
Anche nel testo di “deboli di cuore” dici “questo mondo non è fatto per i deboli di cuore”. Cosa intendevi dire?
<<Questo brano è il succo del disco per quanto riguarda il messaggio che racchiude. E’ stata scritta pensando ad un padre che parla alla propria figlia incoraggiandola ad essere se stessa quando ci si approccia al mondo. E’ come se gli stesse dicendo “impara a combattere per poterti esprimere emotivamente, non aver paura di esporre le tue emozioni”. Ho praticato il pugilato fino ad un anno fa, è uno sport che erroneamente è visto come violento mentre invece è un momento in cui si deve usare il proprio corpo ma soprattutto testa per avere il controllo di se stessi. Nel brano c’è anche questa immagine: il titolo originario era “samurai 2.0”. La verità è che il mondo di oggi chiede di essere qualcosa di lontano da quello che in realtà sentiamo di essere e noi non possiamo che combattere>>.
La musica italiana è cambiata molto negli ultimi anni: molti la accusano di essere cambiata nel modo peggiore, ovvero di essersi commercializzata troppo, altri ritengono invece che il cambiamento sia giusto ed inevitabile. Tu che conosci così bene la musica ed il mondo musicale italiano da che parte senti di schierarti?
<<Penso che siamo in periodo di transizione musicalmente parlando. E’ un momento di grande livellatura del suono in cui c’è la riproposizione di uno stesso suono e della stessa ritmica con grandissima frequenza. Questa pratica riproposta continuamente da moltissimi artisti è la conferma che si guardano i numeri dei dischi di platino piuttosto che dei passaggi radiofonici. Questo sono dei numeri finti perché non esiste più un mercato discografico. Il problema è che le scelte artistiche fatte da un artista molto bravo vengono riproposte e adottate da chiunque il che è ridicolo e inutile. Quello che sarebbe utile è la differenziazione non l’omogeneizzazione. Questo suono adottato su vastissima scala arriva dall’estero ma in Italia non si è ancora riusciti a capire che le produzioni estere sono molto più forti delle nostre. Quello a cui si guarda continuamente al di fuori dell’Italia è pop, ma è un pop con i controfiocchi; in Italia c’è ancora molta strada da fare per arrivare al pop internazionale e per capire che non tutti lo possono fare, ma che anzi ogni artista deve scegliere la propria strada avendo una propria originalità definita. Non credo che quello rifarsi a ciò che va per la maggiore sul mercato o sulle classifiche sia il modo migliore per fare musica; se io volessi cantare dei brani con la vocalità alla Pausini farei una cosa priva di valore perché non fa parte di me e del mio modo di fare musica. Ho degli ascolti trasversali ma non posso pensare di fare quello che non sono: una cosa è ascoltare qualsiasi genere di musica, un’altra cosa è imporre a se stessi di fare la musica che non si è adatti a fare>>.
Se avessi a disposizione un solo brano di questo album per farti conoscere da un ascoltatore che non ha mai ascoltato nessun tuo brano quale sceglieresti? E, invece, scegliendo tra tutti i brani della tua carriera?
<<E’ una domanda difficilissima soprattutto per una cantautrice come me. La risposta probabilmente non esiste perché se dicessi “Reo confesso” piuttosto che “Deboli di cuore” o qualsiasi altro brano sceglierei una sola parte di me. Tra tutte direi forse “Conseguente” perché in quel brano c’è la mia parte interiore, la vocalità bassa che qui in Italia non è una cosa comune, la parte rock ed un arrangiamento diverso da quello che si sente solitamente. Tra tutti i brani della mia carriera non saprei dare un unico titolo: punterei sulla tripletta di “La la la”, “Prima che sia domani” e “Il vento”>>.
Scegliendo, invece, LA canzone della musica italiana e LA canzone della musica estera nella quale senti più te stessa, la tua vita o il tuo modo di intendere la musica?
<<Questa è ancora più difficile (ride). Allora di quelle della musica italiana andrei su “Lontano dagli occhi” di Sergio Endrigo oppure per andare verso altri mondi musicali “Il mare d’inverno” di Loredana Bertè e “Com’è profondo il mare” di Lucio Dalla che sento molto vicine a me. Nell’ampia scelta della musica estera la prima che mi viene in mente è “Perfect day” di Lou Reed>>.
Ilario Luisetto
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