venerdì 22 Novembre 2024

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JurijGami: “Vivo di musica e di giochi di parole” – INTERVISTA

A tu per tu con il cantautore comasco, in uscita con il suo EP d’esordio intitolato “Breve ma incenso”

Anticipato dall’interessante singolo “Tra il tedio e il dolore” (qui la nostra recensione), arriva finalmente il primo progetto discografico di JurijGami, giovane artista che avevamo già precedentemente incontrato in occasione del lancio del suo personale tormentone per l’estate “Christian De Sica” (qui per l’intervista). Pubblicato lo scorso 9 novembre per Cello Label, etichetta discografica indipendente con sede a Bruxelles, questo mini-album contiene cinque nuove tracce inedite che raccontano per filo e per segno le varie anime del giovane cantautore comasco. Approfondiamo la sua conoscenza.

Ciao Jurij, partiamo dal tuo EP d’esordio “Breve ma incenso”, come ti è venuta l’idea geniale del titolo? 

«Vivo di giochi di parole (sorride, ndr), mi vengono in continuazione. Il titolo è arrivato nel momento in cui ci siamo trovati a selezionare i brani da inserire nel progetto, abbiamo scelto quelli un pochino più sostanziosi tra i pezzi che avevo nel cassetto, così mi è venuto in mente il concetto del “breve ma intenso”, che poi è diventato “incenso” perché, senza sembrare esagerato, dentro di me c’è stata una sorta di consacrazione spirituale, arrivata dopo un lungo percorso personale che mi ha portato ad essere quello che sono oggi, a scrivere canzoni, un qualcosa che fino a qualche anno fa era per me impensabile».

Nel disco questo concetto ritorna più volte, come descriveresti il tuo rapporto con la spiritualità?

«Ultimamente mi sono avvicinato al “Pastafarianesimo”, una religione molto ispirata che permette agli individui di vivere in modo libero, sempre nel rispetto degli altri e delle regole, un discorso assolutamente interessante e da approfondire. Mi affascina un sacco questa cosa del DNA umano paragonato alla forma del fusillo, quasi una prova empirica di questo stile di vita alternativo. Tutto è nato dalla mente del fisico Bobby Henderson, che non condivideva l’insegnamento nelle scuole del creazionismo, così ha deciso di cominciare a divulgare la scienza e ha inventato il “Pastafarianesimo”, una religione riconosciuta in tutto il mondo. Invito tutti a leggere qualcosa in più a riguardo, perché è molto interessante».

Nel singolo “Tra il tedio e il dolore” parli di vittimismo cronico e lamento ciclico, c’è un antidoto o una cura per curare questa sorta di “abbacchiamento sociale”?

«Eh, che bella domanda! Una cura non lo so, ma credo sia un fattore principalmente culturale, che appartiene al fare tipico dell’italiano medio, me compreso, anche se sono mezzo estone (ride, ndr). Credo che l’antidoto si possa trovare nell’istruzione, mentre un’altra soluzione è di tipo caratteriale, dobbiamo cercare di buttarci nelle cose e non partire prevenuti, con “Tra il tedio e il dolore” non voglio dire che Schopenauer abbia sbagliato, ma parto dal suo presupposto per cercare di scaturire una reazione, perché pensando che la vita sia noia solo noia e dolore non si ottiene nulla, ci si adagia ad una situazione di puro vittimismo. Potrà pure sembrare banale, ma vedo intorno tanta gente che non reagisce e che passa il tempo a lamentarsi e basta».

A livello di scrittura hai già una buona identità, sai bene in che direzione vuoi andare. Secondo te, in questo disco, credibilità e sperimentazione riescono a convivere?

«Secondo me sì, inizialmente avevo proprio questo dubbio, perché quando giochi troppo con l’ironia c’è sempre il rischio di non essere compreso, anche perché passo dal raccontare le serate con gli amici a situazioni un pochino più complicate. Come sonorità, invece, ho sperimentato parecchio, ad esempio in “Girati verso di me” il ritornello è in 7/4, abbastanza complesso a livello musicale. L’obiettivo è stato quello di trovare un giusto compromesso tra le parole e la musica, in modo da reggere il tutto e renderlo fluido, scorrevole».

Arriviamo all’inevitabile domanda-carogna, personalmente ti collochi in un genere particolare?

«Ecco la domanda fatidica (ride, ndr). Guarda, ho pensato molto a questa risposta, pur essendoci un’identità ben precisa, credo di aver bisogno ancora di un bel po’ di percorso per arrivare a capire quale sia realmente il mio mondo, preferisco non collocarmi per il momento, lascio che siano gli altri a farlo, personalmente non la ritengo una cosa così importante». 

C’è un momento o un incontro che reputi fondamentale per la tua crescita?

«Te ne dico due: il primo incontro l’ho avuto appena nato con mio padre, musicista che mi ha dato la spinta per intraprendere questo percorso. Un altro incontro importante è stato quello con Simone Tomassini, avvenuto lo scorso gennaio; collaboro quotidianamente con lui, abbiamo un laboratorio musicale e registriamo pezzi insieme ai ragazzi, nel mio piccolo cerco di insegnare loro quel poco che ho imparato da questo mestiere».

Tornando al disco, citi: Obelix, Anna Oxa, Maccio Capatonda, Christian De Sica e molti altri, attingere troppo dall’attualità può rappresentare un’arma a doppio taglio?

«Il rischio c’è, però si tratta di sfumature che mi contraddistinguono. Penso sia importante avere un tratto distintivo, trovo interessante inserire citazioni, perché sono dettagli fondamentali per rappresentare il più possibile un determinato concetto. In un certo senso, spero, di stimolare la curiosità di chi un domani ascolterà magari il pezzo e vorrà approfondire la conoscenza di un determinato prodotto o personaggio. È un aspetto che, oggi come oggi, un po’ manca perché si preferisce parlare dell’ovvio per arrivare a tutti, per ampliare il proprio bacino di utenza, spesso senza arrivare a dire nulla».

Un concetto filosofico ma, per certi versi, anche cinematografico, perché trae ispirazione dai grandi cineasti che con le loro pellicole hanno saputo immortalare un’epoca, come sottolinei nel brano “Christian De Sica”. Qual è il tuo rapporto con la cinematografia?

«Le canzoni sono frutto di ciò che ci accade intorno e fotografano un determinato momento storico, nel bene e nel male. Diciamo che non sono un cultore esagerato di cinema, però alcuni generi mi piacciono, dai cinepanettoni a quelli più impegnativi, chiaramente (ride, ndr). Nel brano a cui hai fatto riferimento parlo di un genere che apprezzo e rispetto, perchè rispecchia il nostro vivere quotidiano, un po’ come il geniale “Fantozzi”, che descrive ironicamente, in modo illuminante e con un’ottica esasperata la nostra società».

Se dovessi scegliere un’epoca del passato, quale decennio sarebbe più vicino al tuo modo di intendere la musica?

«Se dovessi rispondere per un fattore emotivo ti direi i primi anni duemila, quando da bambino passavo intere giornate davanti ad MTV, quel tipo di pop internazionale mi ha segnato molto. Se dovessi rinascere in un periodo, invece, direi a cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70, un’epoca che ho rivissuto partecipando al musical “Fame Superstar” con Paolo Meneguzzi, uno spettacolo che ruotava attorno alla vita di Andy Warhol e alla sua “factory”. In scena ho avuto l’onore di interpretato Bob Dylan, una di quelle personalità che non hanno solo cambiato la musica ma stravolto completamente il mondo. Ecco, mi piacerebbe rinascere in quel preciso momento lì».

Un aspetto positivo e uno negativo del fare musica oggi?

«Parto da quello negativo: gli strumenti sono diventati tanti e alla portata di tutti, in passato c’erano meno produzioni ma con maggiore cura, di conseguenza le persone ascoltavano con più attenzione. Adesso, invece, tutti scrivono e cantano, in una sorta di casino generale, mancano dei filtri. Di positivo c’è che ognuno è libero di dire la sua, ma a discapito di un’oggettiva qualità».

Qual è il messaggio che vorresti trasmettere al pubblico, oggi, attraverso questo disco?

«Trovare un solo messaggio generale è difficile, penso di aver parlato molto di speranza e indirettamente di sogni, lanciando dei segnali di positività. Costruiamo insieme con buon senso qualcosa di buono, un futuro in cui stare bene».

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.