A tu per tu con il giovane cantautore veneto, in uscita con il suo omonimo primo progetto discografico
E’ disponibile dal 30 novembre in digitale e dal 7 dicembre in formato fisico l’album d’esordio di Elya Zambolin, intitolato semplicemente “Elya”, in cui il finalista della quarta edizione italiana di The Voice si mette in gioco con tutta la propria personalità. Tredici tracce, tra cui un brano strumentale e un preludio corale, da lui interamente scritte e prodotte, che scandiscono momenti di vita personali e quotidiani, tipici di un ragazzo di venticinque anni, ma raccontati con grande maturità e una minuziosa cura di ogni singolo dettaglio.
Ciao Elya, partiamo dal tuo omonimo album d’esordio, com’è nato e cosa rappresenta per te?
«Un mosaico di brani nati in situazioni e contesti completamente differenti, una raccolta di tutto ciò che ho vissuto negli ultimi due anni della mia vita. Ci sono sia pezzi scritti in periferia, nella mia zona dei colli Euganei a Padova, ed altri composti a Milano, dove vivo tuttora».
Quali sonorità hai scelto per raccontarti al meglio e mettere in risalto i testi?
«Sono un grande amante del britpop, gli Oasis e i Blur sono stati per me fondamentali. Mi reputo anche un grande ascoltatore dei Beatles e di David Bowie, per cui credo di essere stato inevitabilmente condizionato dalla musica anni ‘70 e da quella anni ‘90. In maniera indiretta, hanno contribuito anche le influenze delle radio con ciò che passa oggi, rendendo il mix finale più contemporaneo. Ho voluto essere onesto con me stesso e con il mio percorso, senza cavalcare l’onda di una particolare moda, è giusto che certi brani si contestualizzino al 2018, ma nulla di studiato a tavolino, un processo assolutamente naturale».
L’ho trovato un disco molto immediato, orecchiabile sin dal primo ascolto, senza tralasciare l’importanza sui contenuti. Non credi che oggi, a livello di scrittura, ci sia un po’ la tendenza di voler dire tutto ma, alla fine, di non dire niente?
«Devo essere sincero, a volte sì, ma non tutto, trovo che in qualsiasi genere ci sia qualcosa di interessante. Il problema è che, in certi linguaggi, si sente la volontà di non voler comunicare, quasi per esibizionismo più che la voglia di condividere la propria musica, questo mi preoccupa. Più che di genere musicale, credo sia un discorso generazionale che colpisce la fascia più giovane. Personalmente, quando scrivo cerco sempre di cambiare prospettiva, un po’ come si fa nel mondo cinematografico, almeno ci provo (ride, ndr). L’intento è quello di mettere insieme parole che possano stuzzicare l’immaginazione dell’ascoltatore».
“Una ragazza così” è il pezzo che hai scelto per trainare l’intero progetto discografico, pubblicato la scorsa estate. Pensi sia quello che ti rappresenti di più?
«Ad oggi no, sicuramente lo era al momento dell’uscita del singolo. La mia intenzione era quella di far ballare le persone, raccontare la storia di due ragazzi che si conoscono ad una festa e, senza l’ausilio della tecnologia, si lasciano andare e si conoscono danzando. Come secondo singolo sto cercando di scegliere il brano giusto, quello che possa contenere maggiormente al suo interno i miei tratti distintivi, i segni delle varie influenze che ho avuto, perché desidero presentarmi con tutto ciò che ho creato in questi anni».
Un brano che contrappone il mondo virtuale alla vita reale, come descriveresti il tuo rapporto con il web?
«Mi sto avvicinando piano piano ai social network, ammetto di non sapermi muovere molto bene in questo ambiente ma, nelle ultime settimane, ho avvertito grande partecipazione da parte del mio pubblico che, forse, mi aspettava. Oggi come oggi è diventato un elemento fondamentale, senza il quale non si potrebbe arrivare a così tanta gente, per cui lo considero uno strumento positivo che va saputo usare. Non amo mostrare troppo della mia vita privata, cerco di concentrarmi sulla parte musicale che, alla fine dei conti, è quella che può interessare realmente».
Con quale spirito ti affacci al mercato e come valuti il livello generale dell’attuale settore discografico?
«Ciò che mi spaventa è che gran parte delle attuali proposte sembra non abbiano la voglia o la necessità di dire qualcosa, questa è la mia paura più grande. A ciò si contrappongono tantissimi artisti che da anni continuano ad aver qualcosa da dire, ad esporsi con professionalità. Non voglio generalizzare, perché ci sono tanti ragazzi con tanta voglia di fare che meritano di essere passati in radio, approcciandosi al mondo mainstream».
Un fenomeno alimentato dall’avvento del digitale, dei talent show o da altro?
«Sicuramente da una serie di fattori. Non darei la colpa ai talent show, ma indubbiamente hanno semplificato la mentalità dei ragazzi che si approcciano alla musica, l’idea che si può avere è che tutto sia alla portata di tutti. La mia esperienza, invece, mi ha insegnato che non è facile comporre musica, c’è una costruzione importante dietro, anche nei brani che possono sembrare più leggeri. Quello che cerco di fare è snellire questo processo, farla passare come una cosa semplice, ma non lo è affatto».
Sono trascorsi due anni dalla tua partecipazione a The Voice, pensandoci a freddo, cosa ti ha lasciato questa esperienza?
«Sicuramente l’idea di ciò che accade dietro le quinte nel mondo dello spettacolo, oltre che una bellissima esperienza, a metà tra la musica e lo show televisivo. Il palcoscenico mi piace, per cui mi sono molto divertito in quel contesto, in più mi ha segnato l’esperienza con Max e la grande soddisfazione nel riuscire a portare in finale uno dei miei inediti, una cosa non scontata all’interno di un talent».
Credi che questo periodo ti sia servito per sperimentare al meglio il tuo sound? Non avere la fretta di uscire subito dopo l’esperienza di un talent solo perché fa parte del “protocollo”, può rappresentare a lungo termine un vantaggio?
«Tutte le esperienze che si raccolgono, prima o poi, servono. Onestamente, avrei voluto far uscire un disco anche prima, ma mi sono reso conto che lasciarlo maturare era la cosa migliore da fare. Oggi non sarei così fiero di questo album se non ci fosse stato questo tempo, se l’avessi fatto in un mese avrei ottenuto un risultato diverso. Ho ripreso i brani, ci ho lavorato, li ho modificati. Sai, le canzoni possono nascere anche nell’arco di un minuto, ma è necessario che maturino insieme al suo autore, cercando di donare loro quante più sfumature possibili».
Per concludere Elya, quale messaggio vorresti trasmettere al pubblico, oggi, attraverso la tua musica?
«E’ difficile rispondere, perché ogni canzone ha il suo mondo, un obiettivo differente. Ciò che vorrei è che i miei pezzi fossero dei porti, nei quali le persone potessero fermarsi, ricaricarsi, riflettere e riprendere il viaggio, magari, con un qualcosa in più nel proprio bagaglio».
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Nico Donvito
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