A tu per tu con la cantautrice romana, in uscita con il suo nuovo progetto discografico “Biondologia“
Intervistare Romina Falconi è un desiderio che avevo nel cassetto da diverso tempo, perché sapevo benissimo che con lei non avremmo parlato superficialmente del più e del meno, di tematiche scontate, di musica di plastica e che non avrei mai potuto rivolgerle domande come: “ma che ci metti nell’amatriciana la pancetta o il guanciale?”. Sono contento che questa chiacchierata sia arrivata oggi, quando a rappresentarla c’è un disco come “Biondologia“, benfatto e ben strutturato, che merita un’approfondita retrospettiva. Per la cronaca, siamo stati al telefono più di un’ora, escludendo le confidenze personali che sono durate circa il doppio, mezz’ora in più e avremmo potuto parlare di reciproco sequestro di persona. Lo so benissimo che le interviste lunghe non le legge nessuno, ma né io né Romina siamo tipi da slogan, per cui prendetevi il tempo necessario per approfondire qualcosa che va oltre la semplice conoscenza di un progetto discografico. Provare per credere.
Ciao Romina, benvenuta su RecensiamoMusica. Partiamo naturalmente da “Biondologia”, un progetto interessante ma, al tempo stesso, non facile da spiegare. Come lo descriveresti?
«Come uno sfogo, una continua seduta tra paziente e analista. Ho dovuto lavorare molto sui miei difetti, tirarli fuori senza provare alcun senso di vergogna, perché lo scopo era mostrare anche e soprattutto il peggio. Siamo circondati dall’ostentazione dei nostri punti di forza, mi andava di parlare delle debolezze, dei lati più oscuri della nostra psiche, come in un diario, mi sono sentita un po’ come “Alice nel paese degli schiaffi” (ride ndr), andando a sviscerare anche le magagne che ci rappresentano, contraddistinguono e ci rendono esseri umani. È stato un percorso difficile, perché a nessuno di noi piace buttare fuori i propri difetti come se fossimo sul banco del mercato».
Infatti, viviamo in un’epoca in cui ognuno di noi tende a vivere in bella, cestinando le bozze, tenendo in archivio soltanto la fotografia che viene bene a discapito dei mille scatti venuti male. In marketing si tende a puntare sul meglio, tu hai deciso di celebrare e cantare il peggio, una scelta consapevolmente coraggiosa?
«Credo e spero di sì, oggi come oggi la verità è nascosta dentro quello scatto venuto male o la bozza cestinata dal contenuto amaro. Questo aspetto della nostra società lo aveva già capito Vittorio De Sica con i suoi film così reali ma anche grotteschi, capaci di descrivere un disagio e di insegnarti a riderci sopra. Ci sono delle emozioni basilari che viviamo tutti e che non possiamo nascondere, perché vorrebbe dire reprimerle. Ognuno di noi tende a mostrare il meglio, ma tirare fuori solo quello significa omologarsi a tutti gli altri, nascondere dei tratti caratteriali che ci rendono unici e distinguibili. A volte ci innamoriamo dei difetti delle persone, del loro buio interiore, personalmente a me è capitato.
Come dici tu, dal punto di vista del marketing, può sembrare una strategia un po’ kamikaze per un progetto pop, però mi sono fatta due conti, fare un disco non è una cosa semplice, è diventata una chance, la mia è un’etichetta indipendente e riuscire a chiudere un album non è poi così scontato. Di progetti che parlano di buonismo e camuffano la realtà ce ne sono talmente tanti che mi sembrava inutile andare in quella direzione, in più un disco ha un costo sia per chi lo realizza sia per chi lo compra, per cui mi sono sentita in dovere di costruire qualcosa che valesse il costo del biglietto, semplicemente attraverso la verità, cucendomelo addosso canzone dopo canzone».
Diverse le tematiche presenti e ricorrenti, ci sono pezzi autobiografici e pezzi “altrobiografici,” passami il termine, nel senso che ti sono stati ispirati da racconti, lettere, e-mail e confronti con altre persone. Come sei arrivata a questa nuova forma di scrittura che quelli bravi chiamano psico-pop?
«Devo tutto alla mia gavetta, il periodo durante il quale sperimenti di più per cercare di trovare la tua strada, di affinare la tua scrittura, di edificare la tua identità. Dopo aver pubblicato il singolo “Il mio prossimo amore”, mi sono arrivati messaggi di persone che mi seguono e che si sono riconosciute in quei versi, confidandomi le loro vicende personali. Da una parte una grossa responsabilità, ma dall’altra anche una bella dimostrazione di affetto e di stima, perché realizzi di essere riuscita a centrare l’obiettivo, ovvero quello di riuscire a far immedesimare chi ti ascolta.
Così ho continuato a studiare e approfondire determinati argomenti, iniziando ad elaborare l’intero progetto. Quando l’ho presentato alla mia etichetta, ho cominciato ad esporre le tematiche, dalla dipendenza affettiva all’abbandono, passando per il lutto e gli altri argomenti del disco. All’inizio non ho visto intorno a me facce molto convinte (ride, ndr), ho chiesto del tempo per sviluppare in musica questi concetti e ho cominciato a scrivere per vari pezzi, selezionando poi quelli che mi convincevano di più».
Tutti questi temi che hai sviscerato pensi che siano figli dei nostri tempi e che il disagio sociale sia degenerato, oppure è un disco che avresti potuto scrivere in qualsiasi altro momento storico?
«E’ una domanda a cui non ti so rispondere, perché tutto è arrivato in maniera molto spontanea e meno macchinosa di quanto possa pensare. Sicuramente la musica che componi è figlia dei tempi che stai vivendo, per cui credo che in quest’epoca ci sono aspetti in cui siamo migliorati e altri in cui siamo peggiorati. La gente si lascia meno abbindolare rispetto al passato, ci sono più mezzi e opportunità per tutti, la tecnologia ci permette di poter utilizzare la fantasia a nostro vantaggio, ci sono più stimoli.
D’altro canto, andiamo un po’ troppo a clusterizzare, a dare delle etichette ad ogni cosa, rendendo tutto ciò che ci circonda troppo omogeneo e impomatato, Sull’aspetto creativo siamo molto indietro rispetto all’estero, non capisco bene il perché È diventato tutto troppo comodo, si fatica meno ad ottenere ciò che desideriamo e, forse, questo è uno dei problemi più grossi».
Dopo aver parlato tanto degli schiaffi della vita, parliamo anche delle carezze. Quali sono le cose che ti fanno stare bene?
«Circondarmi degli amici, ho imparato a sceglierne pochi ma buoni. Mi sono resa conto di aver perso troppo tempo a nascondere i miei difetti, a sentirmi inadeguata, cercavo di essere qualcosa che non ero. Alle volte la felicità può essere anche solo provare a sacrificarci per quello che ci piace, fare il possibile per seguire la nostra vocazione e non il raggiungimento di quel determinato desiderio, bensì il dispendio di energie per ottenerlo.
Ognuno di noi a seconda delle occasioni può essere perfetto o meno, ad esempio posso essere la migliore delle amiche ma anche la peggiore delle amanti, irreprensibile in alcune circostanze mentre in altre mi autodefinisco un casino. Nella mia vita ho davvero poche certezze, quelle che ho le reputo sacre, compresi i contrasti e le contraddizioni che abbiamo tutti, lati che bisognerebbe analizzare e non frenare, perché quella che all’apparenza può sembrare una debolezza alle volte può rivelarsi la nostra forza».
Facciamo un passo indietro nel tempo, che bambina sei stata?
«Ero molto strana, non ridevo mai, tipo Mercoledì della famiglia Addams. Proprio l’altro giorno sono andata a trovare mia madre e abbiamo riguardato un po’ di vecchie foto, ero proprio una musona, solitaria, iper sensibile, stralunata, vivevo semplicemente nel mio mondo. Pensa che un anno a carnevale volevo travestirmi a tutti costi da gallo, mi hanno dovuto cucire apposta il vestito perché in giro non si trovava (ride, ndr)».
Quando hai scoperto di non poter fare a meno della musica?
«Guarda, avrò avuto quattro anni. Quando mi chiedevano cosa vuoi fare da grande rispondevo con molta umiltà Freddie Mercury (ride, ndr), come se fosse un mestiere tipo il pompiere, ero letteralmente rapita dalla sua voce, dalla sua presenza scenica. Non ho mai ascoltato come tutti gli altri bambini le canzoni dello Zecchino d’Oro, sin da piccolissima ho sempre spaziato tra i generi, tutti tranne forse la musica metal. Sono impazzita per gli Abba, Whitney Houston, i Beatles, mentre di italiani Riccardo Cocciante, Marcella Bella, Mia Martini, Loredana Bertè, Claudio Baglioni e molti altri. Mi piaceva alternare artisti aggressivi, romantici, crepuscolari, forse perché già mi incuriosiva indagare nelle sensazioni dell’animo umano».
Quanto è importante, secondo te, approfondire la conoscenza di noi stessi per poter comprendere al meglio chi c’è intorno?
«E’ fondamentale, bisogna sempre partire dal comprendere ciò che vogliamo realmente e non è così facile scoprirlo, perché abbiamo una serie di conflitti interiori per cui è importante capire cosa siamo disposti a fare per ottenere quello che desideriamo, analizzare bene sia i pro che i contro. La vita è fatta di scelte, alcune volute e altre imposte, i rimpianti e i sensi di colpa non aiutano, anzi, spesso si trasformano in una forma di vittimismo, dovremmo cercare di abbandonare le nostre sovrastrutture e smussare un po’ di preconcetti».
A breve partirà la tua tournée, con tre imperdibili anteprime in programma: il 3 maggio al Largo Venue di Roma, il 12 maggio al Covo Club di Bologna e il 16 maggio al Teatro Apollo di Milano. Cosa puoi anticiparci a riguardo?
«Con me ci sarà una band pazzesca, le canzoni del disco e degli interventi parlati, perché “Biondologia” è un reparto, l’abilità di rimanere leggeri nonostante il peso delle difficoltà, per cui ci tengo particolarmente che gli spettacoli dal vivo abbiamo una sembianza diversa rispetto ai soliti concerti, per ricreare la stessa atmosfera e lo stesso percorso dell’ascolto del disco. Io sono nata e cresciuta sul palco, fin da piccolissima ho fatto piano-bar, cantavo ai matrimoni, ho fatto veramente di tutto. Lo dico con orgoglio perché, dopo tanti sacrifici, finalmente sono riuscita a realizzare un tour tutto mio, mi sento al settimo cielo».
Infatti, ti sento molto serena, hai imparato a convivere con i tuoi conflitti interiori, a saperli affrontare al momento opportuno. A quanti chilometri dalla felicità ti trovi?
«Mi stai facendo questa domanda in un momento in cui sono felicissima, perché questo disco me lo sono sudato fino all’ultimo. Anche se non so come andrà a finire, sono contenta del lavoro svolto, perché sono riuscita a concretizzare tutto quello che mi passava per la testa, senza freni inibitori. Mi sento serena ma non so dirti per quanto, la felicità non dura molto e, forse, è bella proprio per questo».
Per concludere, se avessi la possibilità di tornare indietro, che consiglio daresti a quella ragazzina di Torpignattara con la testa un po’ tra le nuvole, che a carnevale si travestiva da gallo e che sognava di diventare Freddie Mercury?
«Le consiglierei di pretendere di più, perché nella mia vita mi sono accontentata e colpevolizzata troppe volte. Grazie alle persone che mi seguono e che mi vogliono bene ho imparato a leccarmi le ferite, perché mi hanno accettato per quella che sono, senza giudicarmi. Eppure, se ci pensi, il mio è un mestiere fatto di valutazioni, consensi e giudizi costanti. Oggi so finalmente cosa voglio, il casino è capire come ottenerlo (ride, ndr), ma sono arrivata alla conclusione che più sappiamo riconoscere le cose che ci fanno bene e più ci sentiamo in armonia con la nostra vita».
Nico Donvito
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