A tu per tu con il musicologo bolognese, ideatore e amministratore del blog di recensioni IlGerone.net
Osserva la musica ascoltando le immagini evocate dal suono e dalle parole di ogni singola canzone, così Vainer Broccoli ha trasformato la propria cecità in un punto di forza, approfondendo e sviluppando la sua passione per il mondo delle sette note. IlGerone.net è il nome del blog che gestisce in piena autonomia dal 2012, dando ampio spazio soprattutto alla musica emergente e voce a numerosi giovani artisti della scena indipendente. Nel progetto TalentOne figurano oltre 510 recensioni, più interviste e articoli in cui viene messa in risalto la struttura di una canzone, dal testo agli arrangiamenti, tutto ciò che dovrebbe contare realmente in ambito discografico. Una concezione interessante e piuttosto illuminante, che ci ha spinto ad approfondire la sua conoscenza.
Ciao Vainer, benvenuto su RecensiamoMusica. In un’epoca in cui la musica è fatta soprattutto di immagini e l’apparenza sembra conti più della sostanza, qual è la tua personale visione della musica?
«Domanda non banale a cui rispondere… Vedo, nell’ambiente mainstream, una sorta di appiattimento dove ciò che conta non è il prodotto musicale in sé per sé, ma l’apparenza, le visualizzazioni e tutta una serie di fattori che, a mio modesto avviso, c’entrano poco con il pentagramma… diciamo che la sensazione è quella di una sorta di mordi e fuggi…».
Dal 2012 gestisci in piena autonomia il sito IlGerone.net, cosa ti spinge a recensire album e canzoni?
«Come spesso accade, il mio blog è diventato “music oriented” quasi per caso… Pensa, ho fatto nascere TalentOne per capire se si poteva creare un player in html5, volevo vedere se ero capace di farlo io e… Ed ecco qui, oggi scrivo di musica, a livello di recensioni, e mi piace farlo per la musica emergente cioè per quelle realtà che non hanno la possibilità di farsi strada in un ambito sempre più complesso in cui farsi conoscere».
Quando e come la musica è entrata a far parte della tua vita?
«Mamma mia, mi fai sentire davvero vintage… Sono sempre stato appassionato di musica e, ricordo, iniziai nel 1988 a mixare musica per i bar del mio paese, era un modo per raggranellare qualche soldino, poi i primi passi da speaker nelle radioline di paese e via via avanti fino a capire che mi sarebbe piaciuto iniziare a suonare la chitarra… Le prime lezioni, poi la crescita come speaker ed eccomi qui, oggi ad essere completamente dipendente dal mondo delle 7 note e, nonostante il mezzo secolo che si avvicina, a continuare a coltivare questa passione per un qualcosa che mi ha dato tanto e che continua a darmi grandi soddisfazioni umane».
Hai un passato da chitarrista, quali analogie e quali differenze trovi tra chi realizza musica e chi la racconta?
«Domanda non banale che meriterebbe una risposta dalla sintesi complessa… Diciamo che molte volte leggo, soprattutto in rete, recensioni e commenti che hanno poco a che fare con il prodotto che si vuole mettere in luce… Credo che l’aver suonato, anche se non a livelli eccelsi (ero un discreto chitarrista ritmico non di più) faccia cogliere sfumature e peculiarità legate agli arrangiamenti, al modo di suonare, ai colori di un pezzo che sono il cuore di una produzione… Avere sudato su di uno strumento ti fa vedere e sentire quel lavoro che sta dietro a chi suona il quale, per farlo, ha studiato, sudato e fatto sacrifici… Credo che siano sfaccettature che possono esser colte soltanto da chi ha vissuto, seppur marginalmente questo tipo di situazione».
La tua storia mi ha molto colpito, leggendo i tuoi articoli emerge grande passione sia per questa nobile forma d’arte che per la vita. Quale messaggio ti senti di rivolgere a chi si lascia abbattere dalle difficoltà quotidiane troppo facilmente?
«Oggigiorno la nostra quotidianità è costellata di ostacoli, di imprevisti e di difficoltà… Io non sono certo qui a voler fare “il saggio del villaggio”, ma la cosa che posso dire è che se si ha un sogno nel cassetto non bisogna mai abbandonarlo perchè se si persevera prima o poi il jolly si pesca e qualche soddisfazione arriva… Ovviamente tutto è legato alla storia di ognuno di noi, però il mantra che mi ripeto ogni giorno, credimi, è “crederci, crederci ed ancora crederci”».
Condivido lo spirito che ti spinge a parlare e recensire soltanto ciò che ti piace, da sempre sposo la tua stessa filosofia. Ultimamente le critiche musicali sono diventate un modo per far crescere personaggi e miti, a discapito della buona musica. In fondo non siamo noi i veri protagonisti, il nostro compito è quello di valorizzare… non demolire. C’è tanta bellezza intorno, perché soffermarci sulle cose brutte?
«Condivido… Scrivendo di musica per passione io recensisco soltanto ciò che mi arriva e che mi dà qualche emozione… Non sarei mai capace di buttar giù frasi a comando, forse per questo non sarò mai un professionista nel campo, ma va bene così perchè una canzone, un album, deve smuovere qualcosa a livello di pancia… Diciamo che deve farmi sentire le farfalle nello stomaco e solo così la mia fantasia si mette in moto».
Qual è l’aspetto che più ti affascina di un’intervista?
«Guarda, in questi anni ho avuto la fortuna di incontrare/conoscere anche personaggi non proprio emergenti (da Fabio Concato a Marina Rei, passando da Irene Grandi e Francesco Baccini e, non ultimi, i Dirotta Su Cuba) e ciò che mi ha sempre dato grande soddisfazione è vedere come il mio modo di pormi, durante le interviste è l’aspetto umano che emerge… personalmente, infatti, evito sempre le interviste via mail preferendo di gran lunga le telefoniche dove le persone poi si lasciano andare e mi danno modo di andare oltre l’aspetto puramente mediatico arrivando a condividere anche lati umani troppe volte lasciati da parte».
Ti senti rappresentato dall’attuale mercato e da ciò che si sente oggi in giro?
«La risposta sarebbe un secco “no”… Purtroppo, o per fortuna non lo so, io amo la musica suonata… Mi piace sentire il rumore delle dita sulle corde di una chitarra o di un basso, adoro sentire il lavoro di chi mette l’anima su di uno strumento e questo abuso della tecnologia per impacchettare un prodotto mi lascia davvero indifferente ed, anzi, diciamo che l’abuso di strumenti come il mitico “auto-tune” mi fa l’effetto del gesso che scricchiola sulla lavagna…».
In che direzione sta andando, secondo te, il settore discografico e quali soluzioni proponi per migliorarlo?
«Uuuu, domandona… Fino a poco tempo fa non avevo un’idea ben precisa, quando non si conosce bene il mondo della musica a certi livelli non si immagina, poi ho avuto la fortuna di iniziare a collaborare con Roberto Drovandi (bassista degli stadio) nel suo progetto solista ed ovviamente sono entrato a contatto con il mondo vero della produzione discografica… Oggi il mainstream è appannaggio di pochi e non viene lasciato spazio alle nuove leve… nel mondo indie non si riesce a far fare rete agli stessi artisti emergenti, esiste una sorta di “voler coltivare ognuno il proprio giardinetto” senza capire che se non si allarga un po’ lo spettro delle situazioni si arriverà ad implodere andando a creare un vuoto che non è solo legato ai dischi in sé per sé, ma a tutto l’indotto che gira attorno a questo ambiente.
Soluzioni? Non è semplice darle, però certo è che se si allargasse un pochino di più l’ambiente, se si capisse che bisognerebbe tornare a lavorare su progetti non solo mordi e fuggi, ma di più ampio spettro si potrebbe risollevare un pochino il tutto. Altra cosa, forse le major dovrebbero iniziare a comprendere come muoversi in rete e con la rete senza cercare soltanto di demonizzarla tanto, che piaccia o no, è un fattore con il quale si deve avere a che fare».
Quanto è importante, secondo te, approfondire la conoscenza del nostro passato per poter comprendere al meglio l’attuale situazione musicale?
«Per chi fa musica è fondamentale crearsi un background legato ai grandi del passato… Se vuoi dare vita ad una tua idea ascoltare, capire e studiare ciò che arriva dai giganti degli anni ’70, ’80 e ’90 non può che aiutare… In quegli anni c’era un fervore artistico, forse anche dettato da ciò che si muoveva a livello sociale e storico, che oggi nemmeno ci si sogna, fermarsi un attimo ad ascoltare e studiare non può che giovare a chi sta lavorando ad un proprio progetto… Tutto questo unito anche all’uso/studio della parola perchè, credimi, bisogna tornare un attimo a dare forza ai testi delle canzoni cosa che, anche nei big, sta venendo sempre più a scarseggiare».
Infine, per concludere, qual è la lezione più grande che senti di aver appreso dalla musica?
«La musica è un linguaggio trasversale che, nella maggior parte dei casi, unisce le persone… ad un concerto, in sala prove, quando faccio un’intervista e mi relaziono con un artista ciò che, di solito, emerge è questo linguaggio comune che accomuna… Quando parlo con un bassista, un chitarrista, un pianista, non mi sento mai un cieco che parla con un divo, ma un uomo che condivide una passione con il proprio interlocutore e, credimi, per me è tanta, ma proprio tanta tanta roba…».
Nico Donvito
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