domenica 24 Novembre 2024

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Finley: “Il gioco di squadra conta più del talento e dell’individualismo” – INTERVISTA

A tu per tu con Pedro, leader della band in uscita con il disco “We are Finley”, disponibile dal 17 maggio

L’identità di un gruppo musicale si basa sull’entusiasmo e l’unione dei suoi componenti, ne sanno qualcosa i Finley che da quattordici anni si propongono con tutta la propria energia e l’innato carisma. “We are Finley” è il titolo del loro settimo progetto discografico, il primo registrato dal vivo, accompagnato dall’uscita del singolo “San Diego”, un brano fresco ed estivo, che non snatura l’attitudine pop-punk-rock della band lombarda, composta da Pedro (voce), Ka (chitarra), Dani (batteria) e Ivan (basso). In occasione di questo nuovo lavoro, abbiamo raggiunto telefonicamente il frontman per approfondire la conoscenza della loro visione di vita e di musica.

Ciao Pedro, partiamo da “We are Finley”, il vostro nuovo album dal vivo, un greatest hits che raccoglie tutta la vostra energia sul palco. Come siete riusciti a mettere insieme su disco i pezzi di un puzzle lungo quattordici anni?

«Non è stato facile perché, come puoi immaginare, all’interno di una band ognuno ha le proprie preferenze riguardo la scelta delle canzoni. L’obiettivo comune era quello di riuscire a trasportare l’ascoltatore direttamente davanti al nostro palcoscenico, far rivivere le stesse emozioni a chi le ha già provate ed incuriosire coloro i quali non hanno mai assistito ad un nostro live. L’impresa era difficile, ma credo che siamo riusciti ad immortalare su supporto le sensazioni e suggestioni tipiche delle nostre performance dal vivo».

Un ruolo fondamentale ce l’hanno gli arrangiamenti che non sono stati snaturati, bensì valorizzati e potenziati…

«Tanti gruppi tendono a stravolgere i loro primi brani, quasi come se volessero distaccarsi dalle proprie origini, anche solo per avvicinarsi al livello che più li rappresenta in quel momento. Noi abbiamo voluto rispettare le caratteristiche di ogni singolo pezzo, qualcuno lo abbiamo dovuto necessariamente adattare al nostro modo di suonare ora e al mio approccio vocale, che è comunque cambiato nel corso degli anni. Sarebbe stato sbagliato snaturare totalmente alcune hit del passato che il pubblico vuole sentire in quel modo, perché sono legate a ricordi e particolari momenti della loro vita».

E’ interessante la vostra scelta di pubblicare un cd e non un dvd live, perché trovo che ultimamente si dia troppa importanza alle immagini e poco all’ascolto. Così come per i rapporti interpersonali, pensi che l’avvento del web abbia in qualche modo alterato l’approccio di chi partecipa ad un concerto?

«Beh, quello che dici è reale, basta considerare la propensione digitale da parte del pubblico, il nostro per fortuna non esagera da questo punto di vista, ma scattare foto e registrare video è diventata una componente fondamentale per chi assiste ad uno spettacolo dal vivo. Spesso le immagini hanno più importanza nelle nostre vite rispetto al suono, noi abbiamo cercato di prendere i brani migliori da una serie di live che abbiamo realizzato nel corso della passata tournée, per cui non si tratta di un racconto di una singola data. Le immagini possono distrarre ed essere fuorvianti, in più noi apparteniamo alla scuola di quelli che credono ancora nella capacità di evocare fotogrammi nella nostra mente anche attraverso l’ascolto». 

Come vedi l’evoluzione del live da qui a dieci anni? Non credi ci sia il rischio che lo streaming, così come successo per i dischi, prenda sempre più il sopravvento? 

«Non credo perché, al di là della retorica, il concerto rappresenta comunque una esperienza unica, un rapporto diretto che l’artista intreccia con il suo pubblico. Noto effettivamente una deriva causata dai social network, molto spesso le persone vanno ad uno spettacolo solo ed esclusivamente per far vedere di esserci stati, magari conoscono soltanto un paio di canzoni di quel determinato cantante, senza godersi un po’ quelle che sono le caratteristiche fondamentali di un live. La musica è troppo importante per le nostre vite, ha un valore incommensurabile, può cambiare il modo di fruirla proprio come successo con i dischi, ma non credo si potrà mai perdere totalmente il fascino della dimensione dal vivo».

Chiudendo questo scenario apocalittico sul destino dei live, passiamo all’inedito contenuto nel vostro disco, ossia “San Diego”, cosa racconta?

«Racconta di un viaggio che ho percorso insieme a degli amici in California la scorsa estate e contemporaneamente, anche di un cammino spirituale percorso verso l’orizzonte inesplorato della paternità. Questo brano l’ho voluto dedicare al mio piccolo Diego nato tre mesi fa, ho scelto questo titolo non solo per una questione di omonimia nei confronti di mio figlio, ma perché è anche una città per noi importante, ha dato i natali ai Blink 182, una località che nel nostro immaginario rappresenta il fulcro della scena punk. Il destino ha unito una serie di elementi, i pianeti si sono allineati, così è arrivato questo brano che, dal punto di vista del sound, nel ritornello ricorda un po’ le nostre origini perché e, per la prima volta nella nostra storia, può essere riconducibile all’estate e alla leggerezza tipica di questa stagione».

Facciamo un salto indietro nel tempo, torniamo tra i banchi di scuola del Liceo Galileo Galilei di Legnano, dove vi siete conosciuti. Qual è stata la scintilla che vi ha fatto intuire che da una passione comune poteva nascere un progetto importante come il vostro?

«Guarda, di scintille ce ne sono state tante. Da Marzo abbiamo iniziato a lavorare a Radio 101, dopo due grosse parentesi a radio Kiss Kiss e Radio Montecarlo; in questa nuova avventura abbiamo trovato un po’ lo stesso spirito degli esordi, che ci accomuna e ci diverte ancora oggi. Non vediamo l’ora di ritrovarci in studio e partire con la diretta del programma, quando affronti le cose con questo spirito è inevitabile che qualcosa succeda. Questo discorso riguarda naturalmente anche la musica, tra di noi c’è stata una grande sintonia sin da subito, tutto è iniziato quasi per gioco, siamo stati totalmente rapiti dalla passione, l’unica pecca è che all’epoca ho fatto naufragare la mia media scolastica, i voti si sono abbassati in maniera inversamente proporzionale (ride, ndr).

Piano piano abbiamo iniziato a scrivere, suonare e creare il nostro mondo, lo spirito di squadra è stato fondamentale, l’alchimia tra di noi e tuttora la componente primaria che ci permette di remare tutti verso la stessa direzione, verso un obiettivo che all’inizio non avevamo ben chiaro, ma il segreto è stato quello di crederci tutti insieme. Poi, il tempismo conta tantissimo nella vita, sicuramente l’esplosione dei Green Day e di tutte le altre band che sono venute fuori successivamente a metà degli anni 2000, ha favorito l’interesse dei grandi produttori e delle case discografiche. Dal canto nostro non ci siamo fatti trovare pronti con il progetto giusto e i brani giusti».

Infatti, nel 2006 arriva il vostro primo disco “Tutto è possibile”, che ottiene davvero un successo incredibile, al punto da portarvi a calcare palchi sempre più importanti, tra cui il Teatro Ariston di Sanremo nel 2008. Analizzandolo a distanza di tempo, che ricordi avete di quel periodo?

«Erano così tante le cose da fare, i chilometri da percorrere, che onestamente faccio fatica ad identificare quel periodo in un paio di aneddoti (sorride, ndr). È stata una vita dentro una vita, forse non eravamo ancora pronti a determinati palcoscenici, eravamo dei ragazzini di provincia che avevano appena messo il muso fuori casa, con quella spensieratezza tipica dell’adolescenza. Ripensandoci oggi, siamo stati bravi a tirare fuori il meglio e realizzare molto di più di quello che eravamo realmente in grado di fare in quel momento. Dominare certe situazioni non è stato facile, era necessario possedere un certo tipo di preparazione che si ottiene soltanto con gli anni».

Nel 2012 fondate la vostra etichetta discografica “Gruppo Randa”, spesso si parla troppo poco della scena indipendente che, in realtà, assume sempre un ruolo maggiore perché propone un’alternativa al concetto di mainstream, sempre in continuo mutamento. Con quale spirito affrontate il mercato?

«Con lo spirito di persone che vogliono prendere le proprie decisioni senza per forza di cose scendere a compromessi. L’idea di creare una nostra etichetta indipendente è arrivata dopo la fine del sodalizio con Claudio Cecchetto e la Emi, avevamo bisogno di imparare, crescere, sbagliare e camminare con le nostre gambe, diventare uomini e professionisti a tutto tondo. Certamente si è trattato di un bel rischio ma, dopo sette anni di duro lavoro, siamo fieri di averlo fatto.

Onestamente non so quale sarà il futuro di Gruppo Randa, se in futuro torneremo o meno a collaborare con major o altre realtà discografiche, di sicuro è il modo migliore per esprimere la nostra idea di musica oggi. Riguardo allo scenario completo della musica italiana, diciamo che negli ultimi anni le etichette indipendenti hanno incrementato i propri numeri grazie al nuovo cantautorato indie, all’impronta che stanno dando alla discografia. Il segreto è proprio questo: non seguire una linea comune ed instaurare un contatto diretto e diverso con il pubblico».

Ti senti rappresentato dall’attuale scenario musicale e da ciò che va di moda oggi in Italia?

«In realtà no, ma neanche a livello mondiale. Il mio background arriva dal pop-punk e dal rock, tutta roba che si sente davvero poco in giro. Manca la voglia di sperimentare e trovare nuove soluzioni, paradossalmente sono più attratto da ciò che non c’entra nulla con questo genere di ascolti, perché ritrovo maggiore ricerca e una minore propensione al prendersi troppo sul serio, un modo di fare che nel 2019 mi ha un po’ stufato. Ho iniziato ad ascoltare la trap americana e il cantautorato indie italiano, perché ho bisogno di stimoli diversi che non ritrovo negli ascolti a me più affini».

Per concludere Pedro, qual è la lezione più grande che senti di aver appreso dalla musica, da tutti questi anni di attività?

«La passione e il divertimento portano sempre a dei risultati, senza queste due componenti sarebbe difficile creare un qualcosa di speciale che possa appassionare il pubblico. In più il lavoro di squadra è fondamentale, in un team le persone contano più del talento e dell’individualismo, quando si riesce a  collaborare insieme nella stessa direzione i risultati che arrivano possono essere straordinari.

Nel nostro caso è stato così, prima che un gruppo di lavoro siamo un gruppo di amici, andiamo oltre le inevitabili comprensioni e le divergenze che nascono in ambito artistico, proprio perché non siamo una band costruita a tavolino, non è stato un burattinaio a metterci insieme, tra di noi c’è un rapporto umano che va al di là di tutto. Sia nei momenti di visibilità che in quelli di maggiore difficoltà, ci siamo sempre stretti e lottato con le unghie e con i denti per andarci a prendere quel pezzo di cielo che ci spettava».

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.