A tu per tu con il cantautore emiliano, in uscita con il disco “Indiani e cowboy”, disponibile dallo scorso aprile
Tempo di nuova musica per Stefano “Cisco” Bellotti, al suo ritorno discografico con l’album “Indiani e cowboy”, anticipato dal singolo “L’erba cattiva”. All’interno di questo nuovo lavoro ci sono dieci canzoni, scritte e suonate tra l’Emilia e il Texas, impreziosite dal contributo del musicista Rick del Castillo, noto producer nonché autore delle varie colonne sonore del regista Robert Rodriguez. Si tratta del quinto album in studio da solista del cantautore emiliano, conclusa la prolifica avventura nei Modena City Ramblers, durata per ben quattordici anni.
Ciao Stefano, partiamo da “Indiani e cowboy”, il tuo nuovo album, cosa rappresenta per te?
«“Indiani e cowboy” per me è una svolta, se vogliamo anche un album di coraggio. Rappresenta una presa di posizione sia dal punto di vista artistico che mi ha portato in America a lavorare con un produttore americano, che per i contenuti. In un mondo che va verso parti e pensieri a me molto lontani questo è un disco che, in maniera scomoda, prende ancora posizione, su pensieri diversi e minoritari magari, ma per me importantissimi per continuare a restare umani».
Chi ha collaborato con te in questo progetto?
«Parto dal mio gruppo, dai miei musicisti, Bruno Bonarrigo al basso, Simone Copellini alla tromba, Max Frignani alle chitarre e Kaba Cavazzuti alla batteria che ha seguito anche la parte di produzione italiana del lavoro, poi passo agli americani, prima di tutti Rick del Castillo che ha prodotto artisticamente l’album nel suo studio a Austin in Texas e ha lavorato egregiamente esplorando le potenzialità di ogni pezzo e facendolo fiorire, dandogli una vita interessante, diversa da quello che avremmo potuto fare noi in Italia. Forse più di tutti devo citare e ringraziare Paolo Paggetti della Rivertale Productions che è il fautore di questa collaborazione, è grazie a lui se tutti questi incastri si sono messi in moto».
C’è un elemento ricorrente che accomuna queste dieci tracce?
«Innanzitutto il contrasto. “Indiani e cowboy” è un album di lotta, di frontiera che parla di bene e di male, di gente che ha preso posizione e persone che stanno vivendo sulla propria pelle questi contrasti. La frontiera americana, ma anche quella mediterranea e italiana sono state due suggestioni molto forti e presenti per la scrittura di questo disco. Oltre a ciò, filo conduttore è stata anche la necessità di prendere posizione e di non nascondere la testa come gli struzzi sotto terra facendo finta di non vedere. L’album è una metafora fra bene e male e buono e cattivo e questi concetti ritornano in tutti i brani del disco».
Quali sono le tematiche predominati e che tipo di sonorità avete scelto per esprimerle al meglio?
«Qui mi ripeto. Si parla di bene e male, si prende posizione cercando di avere uno sguardo diverso sulle cose rispetto a come vengono dette o spesso falsamente comunicate. A livello sonoro siamo andati alla ricerca di qualcosa di nuovo per ampliare il mondo musicale che ho sviluppate in questi anni.
Io vengo dalla cultura popolare, prima irlandese e poi italiana e nel corso di questi ventisette anni di carriera mi sembra di averla estrapolata bene (ride ndr.). Ma mi mancava quel suono americano che a me piace tantissimo da sempre e l’idea di andare in Texas a lavorare con Rick del Castillo serviva proprio a questo. Volevo fare miei questi suoni, senza scimiottare l’America. In questo modo le due sonorità differenti si sono unite in una sintesi che ha dato vita a questo disco, che a me personalmente soddisfa tantissimo».
Il disco è stato anticipato dall’uscita del singolo “L’erba cattiva”, cosa racconta?
«Con l’erba cattiva ho voluto capovolgere il significato della frase. Noi pensiamo all’erba cattiva come qualcosa da eliminare, da estirpare, io ho voluto al contrario farne valere la forza. L’erba cattiva siamo noi, quelli che si mettono in discussione, che non danno mai nulla per scontato, che si non si allineano al pensiero comune e allo stesso tempo mantengono radici forti nel cemento e riescono a sopravvivere, a crescere e svilupparsi».
Facciamo un salto indietro nel tempo, quando e come hai scoperto la tua passione per la musica?
«E’ un salto indietro veramente di tanti anni, mi ci vorrebbe la macchina di Marty McFly per tornare agli anni Settanta. Io ho scoperto di avere una passione per la musica e per il canto già da bambino. mentre sentivo mia mamma in casa, un’ex mondina, che cantava i canti di lavoro che aveva imparato. Oppure quando mio fratello più grande di me di 11 anni ascoltava i cantautori italiani degli anni ’70 come Guccini, Vecchioni, Dalla, De Gregori, Iannacci e io sentivo tutti questi suoni che a me affascinavano tantissimo. Il più bel gioco che avevo in casa da bambino era la pianola Bontempi su cui non ho mai imparato a suonare, ma seguivo i numeri come fan tutti, era il mio gioco preferito.
Nonostante questo non ho mai studiato musica perché reputavo che per far musica bisognava essere degli eletti, credevo si dovessero avere doti che io non avevo, perciò crescendo ho coltivato questa mia passione comprando dischi. Spendevo tutti i miei soldi in dischi ed era il mio unico hobby. Poi a 22 anni ho scoperto che potevo cantare perché, una sera, ubriaco, sono salito sul palco con un gruppo che si era formato da pochi mesi, i Modena City Ramblers e ho iniziato a cantare canzoni irlandesi che conoscevo a memoria. Loro si sono accorti che io avevo una voce che poteva esprimere quello che cercavano e mi hanno preso nella band. Quella serata lì mi ha cambiato la vita».
Quali ascolti hanno accompagnato e influenzato il tuo percorso?
«Ho appreso tantissimo dai dischi di mio fratello anche se io non ho mai seguito tanto la musica italiana. Da giovane ho scoperto i Beatles e sono letteralmente impazzito. Non che io mi ispiri a loro ma per me sono un punto di riferimento. Crescendo ho scoperto il rock, l’indie e il metal. I maestri continuano ad essere Bob Dylan che secondo me ha insegnato a generazioni come fare musica e scrivere testi, poi il gruppo che mi ha cambiato la vita sono stati i Pogues di Shane MacGowan che mi ha fatto scoprire la musica popolare, suonata con un’attitudine moderna e punk.
Li ho scoperti negli anni ’80 e proprio questo amore ha fatto sì che io entrassi nei Modena City Ramblers. Ancora adesso ascolto tanta musica di tutti i tipi. Sono molto esterofilo, ascolto di tutto, ma soprattutto musica popolare del mondo, da quella latino-americana a quella peruviana e argentina, la cubana, la musica balcanica, ma sono tendenzialmente un onnivoro della musica soprattutto quella fatta in maniera sanguigna. Non amo particolarmente la dance e l’elettronica e faccio fatica a capire il rap, ma per il resto ascolto tutto».
Con quale spirito ti affacci al mercato e come valuti l’attuale settore discografico?
«Soprattutto bisognerebbe capire di quale mercato stiamo parlando. Secondo me il mercato discografico non esiste più. Io sono un uomo del ‘900 e reputo il mercato discografico inesistente morto e defunto. Quello che c’è è effimero, si basa su pollici alzati, su like su condivisioni spesso false, non è fatto più di dischi concreti e venduti, di gente che fa la fila per comprare un album.
Però i ragazzi, le persone, la musica l’ascoltano ancora e allora bisogna saper sfruttare i tempi moderni per fargliela ascoltare. Al giorno d’oggi sai che fai un disco ed è una perdita secca, sai che quell’investimento non tornerà più, ma a differenza di 15 o 20 anni fa non devi fare un disco per restare nel mondo musicale, puoi veramente decidere di fare un album perché hai delle canzoni che vuoi pubblicare, dei suoni nuovi, e questo non è un male».
Qual è la lezione più grande che senti di aver appreso dalla musica?
«La condivisione. Mettersi in gioco, condividere con gli altri, con i tuoi musicisti, con chi lavora con te, poi con la gente che ti ascolta e che viene ai tuoi concerti. Il pubblico che sente una canzone e non necessariamente la prende come tu l’hai scritta, ma la fa sua e la vede con un messaggio diverso a cui non avevi pensato. Questo condividere le idee, le musiche e le canzoni è la lezione più grande che ho imparato».
Quali sono i tuoi obiettivi futuri e/o sogni nel cassetto?
«Stando coi piedi per terra vorrei fare un bel tour e dei bei concerti per promuovere “Indiani e Cowboy” che per me è un album molto importante. Poi, sognando a occhi aperti ho una lista di musiciti e maestri inarrivabili con cui vorrei collaborare. In passato qualche volta mi è successo che qualche sogno si esaudisse, per cui perché no, lascio il cassetto aperto per riuscire a riempirlo di sogni e possibilità».
Per concludere, quale messaggio vorresti trasmettere al pubblico, oggi, attraverso la tua musica?
«Sono convinto che la gente veda nelle canzoni che fai quello che crede. Il messaggio è quindi quello di aprirsi il più possibile, di non chiudersi in casa con la paura, ma creare condivisioni per migliorare il quotidiano di tutti noi e se un disco o una canzone lo può aiutare ben venga. Questo è il motivo che mi spinge a scrivere e fare album ancora oggi».
Nico Donvito
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