lunedì 25 Novembre 2024

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Veronica Pompeo: “Mi sono lasciata andare ad una composizione emozionale” – INTERVISTA

A tu per tu con la cantante e compositrice di origine materana, fuori con “A Provincial Painter Moods

Un progetto artistico sperimentale che unisce la musica e il teatro, così potremmo definire il nuovo EP di Veronica Pompeo, intitolato “A Provincial Painter Moods”, basato sulle musiche di scena pianistiche di Domenico Capotorto, realizzate per la commedia “A provincial painter” della scrittrice Dacia Maraini. La ricerca e la sperimentazione sono alla base di quest’opera composta da sei tracce inedite, che disegnano i tratti somatici della personalità artistica della compositrice materana, abile nel creare una dimensione sia evocativa che personale, a metà tra cuore e istinto.

Ciao Veronica, partiamo dal tuo EP “A Provincial Painter Moods” pubblicato lo scorso novembre, cosa rappresenta per te?

«Un mio diario personale perchè, nel tradurre in musica l’idea della commedia teatrale di Dacia Maraini e la composizione pianistica di Domenico Capotorto, ho cercato di inserire quello presente nel mio essere in quei quindici giorni di registrazione del disco. Ho utilizzato una sorta di “composizione emozionale”, seguendo l’istinto mi sono posta come filtro tra chi ha scritto la commedia e chi ha composto le musiche».

Musica e teatro, quali sono per te le principali analogie e le particolari differenze tra queste due forme d’arte?

«Sicuramente, sia la musica che il teatro hanno in comune la comunicazione del proprio “io” interiore, sono due forme d’arte che ci riconducono alla tradizione del teatro greco, entrambe costituiscono per me un grande legame. Al contrario, invece, non vedo grandissime scissioni tra queste due forme d’espressione, forse l’aspetto visivo non è ancora presente in egual modo, la messa in scena è una componente teatrale fondamentale, anche se nella musica di oggi l’aspetto comunicativo sta cambiando, la presenza e la gestualità di un artista diventa man mano più importante, così come la scelta scenografica del proprio palco, gli abiti o le immagini proiettate durante un concerto. Oggi come oggi, la musica e il teatro hanno sempre più qualcosa in comune».

Alla base di questa produzione c’è tanta ricerca ma, secondo te, credibilità e sperimentazione possono convivere in musica?

«Tutto quanto dipende dall’orecchio dell’ascoltatore e, nel caso del teatro musicale, dall’occhio dello spettatore. Se si riesce a far passare il messaggio di un profondo coinvolgimento personale, credo che difficilmente si possa percepire un distacco dalla realtà o una poca credibilità da parte dell’artista. Nella composizione di questo lavoro, mi sono lasciata andare vivendo in prima persona gli stati d’animo della protagonista dell’opera che andavo a rappresentare in musica, ho cercato nella maniera più spirituale possibile di mettere nella voce il mio mondo interiore.

Nella stimolazione che si dà alla propria mente per cercare qualcosa che possa somigliare tanto a se stessi quanto al personaggio o al sentimento che si va a rappresentare, vengono fuori cose inaspettate. Mi auguro di essere riuscita a comunicare tutto questo al pubblico, se si segue questa linea di composizione emozionale difficilmente chi ascolta potrà pensare che il mondo della sperimentazione sia lontano da quello della credibilità comunicativa.».

Quando e come hai scoperto la tua grande passione per la musica?

«Studio musica da quando ero piccolissima, provengo da una famiglia di musicisti, ho  vissuto l’ascolto da sempre, dalla musica classica a quella commerciale perché mio papà aveva una vecchia radio libera, per cui mi sono nutrita di ascolti diversi. Da grande ho cominciato con gli studi accademici, prima il conservatorio e poi l’Accademia della Scala, grandi collaborazioni dal mondo del teatro del calibro di Arnoldo Foà e Ugo Pagliai, più artisti leggendari come la mezzosoprano Fiorenza Cossotto e tantissimi musicisti che mi hanno fatto davvero crescere tanto. Tutti questi incontri mi hanno portato ad essere quella che sono oggi, anche se mi ritengo una spugna che ha da assorbire e imparare ancora tanto».

Da vocal coach, che consiglio ti senti di dare a chi comincia ad approcciarsi al canto?

«Prima di tutto di comprendere la motivazione che lega se stessi a questa forma d’arte, sperando che sia legata esclusivamente a una fortissima voglia comunicativa, al desiderio di esprimere se stessi. Da lì partire per costruire la propria vocalità attraverso il proprio percorso di studi, senza tralasciare l’approfondimento di altre forme d’arte, che sono sempre fonte di arricchimento personale.  La cosa fondamentale è coltivare e riscoprire ogni giorno la propria motivazione, comprendere il perché desideriamo cantare, senza lasciarci confondere dal mondo dello spettacolo e dalle luci abbaglianti dei riflettori».

© foto di Fabio Perrone 

Secondo te, come se la stanno passando l’arte e la cultura nel nostro Paese?

«Forse non stanno attraversando il periodo più roseo della loro vita, probabilmente per colpe dovute alla società globale che sta attraversando una profonda crisi, ci sono tantissime emergenze sociali e paure che ognuno di noi sta vivendo in questo preciso momento storico. Il mondo dell’arte viene un po’ messo da parte, quando in realtà avrebbe il potere di comunicare la propria forza e di infondere messaggi salvifici nei confronti di problematiche che vanno a chiudere la nostra anima. Se si riuscisse a dare più sfogo alle forme di espressione artistiche, ognuno di noi avrebbe più facile accesso alla speranza, al desiderio di riscatto personale e alla voglia di prendere in mano le redini della propria esistenza».

Per concludere Veronica, qual è l’insegnamento più importante che senti di aver imparato dalla musica in questi anni di attività?

«Ho seguito tantissimi concerti nella mia vita, ho avuto numerosi Maestri e mi auguro di averne ancora, ma lo spettacolo dal vivo che mi ha davvero sconvolto a livello interiore è stato nel 2004 il live all’Arena di Verona di Keith Jarrett in trio con Gary Peacock al basso e Jack DeJohnette alla batteria, ero in primissima fila e sono rimasta letteralmente affascinata. Ho imparato moltissimo dal punto di vista comunicativo, il senso profondo di quello che significa essere davvero nella musica nel momento in cui la stai suonando, non c’era alcun filtro tra lui, il suo pianoforte e il pubblico, le emozioni arrivano tutte in maniera diretta e profonda. Questa è stata la lezione più grande che ho ricevuto nella mia vita, ancorata alla mia convinzione che la musica sia la fonte di comunicazione di se stessi. La verità arriva ed è quella che l’ascoltatore vuole sentire».

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.