A tu per tu con il rapper classe ’88, fuori con il suo nuovo singolo intitolato “Draculesti Freestyle”
Si intitola “Draculesti Freestyle” il nuovo singolo di Matteo Scataglini, alias William Wilson, in rotazione radiofonica a partire dallo scorso 21 giugno per l’etichetta Sparo Parole Records. In occasione di questo lancio abbiamo incontrato l’artista per approfondire la sua conoscenza e la visione che ha dell’odierna scena hip hop.
Ciao Matteo, partiamo dal tuo nuovo singolo “Draculesti Freestyle”, cosa racconta?
«Non ha un tema preciso a dire il vero. Ho voluto descrivere la mia visione su alcuni aspetti della scena hip hop degli ultimi anni, dove vedo un susseguirsi di artisti che punta a sbranarsi l’un l’altro pur di trovare il modo di esporsi. Mi inquieta il fatto che non si faccia più musica per “rimanere”, quanto più per cercare di mettersi in mostra».
A livello musicale, quali sonorità hai voluto abbracciare?
«Per questa traccia ho voluto restare abbastanza legato alle sonorità classiche. Diversamente da “Go Home” e “Lights Out”, dove ho scelto di lavorare su sonorità più “nuove” per così dire, qui ho voluto usare la chiave del bum bap classico. La ritenevo più consona a un pezzo di questo tipo».
Chi ha collaborato con te in questo brano?
«La strumentale è stata curata da Sick Budd, produttore con il quale sto lavorando da un po’ di tempo a questa parte».
Cosa avete voluto trasmettere attraverso le immagini del videoclip diretto da Gianluca Colombo?
«Il brano è nato una sera, stavo cercando ispirazione e la trovai quando vidi che in TV davano Dracula di Francis Ford Coppola. E ovviamente Gianluca ha cercato di ricreare un’atmosfera che calzasse sul brano. Volevamo qualcosa di noir, un po’ come gli horror anni ’80, e così abbiamo scelto una fotografia e una regia che potesse essere più vicina possibile all’immaginario».
Facciamo un salto indietro nel tempo, quando e come hai scoperto la tua passione per la musica?
«La mia passione per la musica è nata attorno ai 15 anni. Ricordo quando comprai il primo disco di ODB, “Return to the 36 Chambers”. Da quel momento in poi ho amato la black music e ho voluto studiarne sempre di più la cultura, fino ad arrivare qui».
Quali ascolti hanno accompagnato e ispirato la tua crescita?
«Beh, inizialmente ascoltavo il Wu-Tang Clan, Eminem, la Terror Squad, i grandi classici come Onyx, Guru & Jazzmatazz, Biggie, PAC, Mobb Deep. Poi con il tempo scoprii la Babygrande, Rhymesayers e il rap indipendente di Anticon. Da lì cominciai ad appassionarmi a tutto quel substrato di artisti fortissimi ma poco conosciuti a quell’epoca, e da lì c’è voluto poco per capire cosa mi sarebbe piaciuto fare una volta che avrei affinato la scrittura per poterla sentire mia e cominciare a credere seriamente in quello che facevo».
C’è un incontro che reputi fondamentale per il tuo percorso artistico?
«Nessuno in particolare a dire il vero, ma nello stesso tempo tutti. Ai tempi le serate erano un po’ diverse da ora, e anche gli ambienti che frequentavo rispecchiavano molta genuinità per chi volesse entrare a fare parte di questo mondo. Ricordo Vibrarecords, un negozio in Via Anfossi a Milano dove andavo sempre per trovare dischi underground che non trovavo altrove. Ai tempi lo gestivano Supa e Don Joe. E ricordo che ogni volta che passavo da quelle parti sentivo un energia particolare, uno stimolo che cresceva sempre di più. Milano è stata una scuola dura, perché richiede impeccabilita da parte dei suoi allievi. Spero di esser riuscito a soddisfarla (ride, ndr)».
Come se la sta passando la scena rap, oggi, in Italia?
«La scena rap in Italia ultimamente mi è un po’ distante a livello di sonorità. Apprezzo molto la trap e le sue sfaccettature, e trovo che questo continuo rinnovarsi ed evolversi sia fondamentale in un genere che è rimasto abbastanza fedele alle radici fino ai primi 2000. Ora il rap si sta alchimizzando col pop, rendendosi più accessibile anche a chi non si sente affine ai classiconi bum bap o al rap “vecchia maniera”, il che può essere visto anche come un bene in un paese che vede la musica più come passatempo che come arte. In Italia ci sono un sacco di artisti fortissimi e molti restano nell’ombra per scelta o perché il periodo storico richiede un altro tipo di sonorità. Non saprei dirti come se la passa onestamente, ma ora questo “genere” è diventato abbastanza inflazionato a mio parere, e lo ascoltano praticamente tutti, e in Italia ha raggiunto un bacino d’utenza abbastanza grosso, una curiosità maggiore e il pubblico risponde meglio a quello che fai, lo conosce di più per così dire».
Ti senti rappresentato dall’attuale scenario discografico?
«Riconosciuto? Onestamente non troppo (ride, ndr). Come ti dicevo prima riconosco che al momento ci siano un sacco di artisti di qualità e molti di questi li ascolto giornalmente. Ma in questo momento sto cercando altri ascolti, anche al di fuori del genere, perché come ti ripeto, i rapper adesso nascono come funghi, ognuno vuole rappare e pochi sanno di preciso quello che rappresenta tutto questo. È un panorama nuovo che sorge sulle radici di ciò che preesisteva, condito con sonorità che si assomigliano molto tra un artista e l’altro. In questo momento gli artisti mi sembrano tutti uguali, omologati. È la mia visione, ma mi sento abbastanza fuori da questa roba al momento».
Per concludere, dove desideri arrivare con la tua musica?
«Non mi sono mai posto questa domanda. Ho sempre fatto musica per me, come studio e ricerca personale, quindi faccio fatica a risponderti. Al momento cerco di fare buona musica, cercando di soddisfare i miei obiettivi e provando a lasciare qualcosa di buono agli altri. Vedremo se ce la farò ahahah».
Nico Donvito
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