venerdì 22 Novembre 2024

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Maurizio Scandurra: “La musica, italiana soprattutto, è defunta da tempo” – INTERVISTA

Intervista a tutto tondo all’esperto musicale

A qualche mese dalla nostra ultima chiacchierata torniamo a contattare l’amico e collega Maurizio Scandurra che, come sempre – nella sua veste di studioso attento della modernità, di giornalista-saggista, scrittore e critico musicale – ci permette di compiere un viaggio a 360° nel mondo della musica italiana parlando ed approfondendo tematiche diverse e concentriche: il mondo della comunicazione, della struttura-canzone, dell’evoluzione musicale, della crisi discografica e dell’appiattimento della proposta artistica. In una chiacchierata a tutto tondo ecco che cosa ci siamo raccontati cercando di scardinare gli equilibri e di trovare le risposte alle domande fondamentali di oggi giorno.

Maurizio, ci conosciamo ormai da diversi anni e per questa rinnovata chiacchierata vorrei partire dalla prima domanda che ti feci la prima volta che ci parlammo: come sta la musica italiana oggi?

<<Difficile interrogarsi sullo stato salute di qualcuno che è già defunto da tempo. Dei defunti non si parla, per i defunti si prega. Parlare di musica italiana equivale a far riferimento a stalattiti, stalagmiti. A temi distanti ormai anni luce da noi. Di tornare alle origini di un mondo ormai inesistente, e che oggi sembra quasi essere il prodotto di una fantasia legata a un’epoca che si è davvero consumata, spero sempre non irreversibilmente. Ritengo che, in qualche modo, oggi, sia difficile parlare di musica in generale: lo strapotere della trap che deriva da una ascesa vorticosa del rap, l’assenza di melodia, la perdita di suono e di significato delle parole determina la scomparsa della musica in quanto insieme di suoni, di note, di emozioni. Che cosa penso dei rapper, trapper e roba simile? Per me sono come i migranti clandestini: nulla c’entrano con l’Italia, nè tantomeno con la nostra cultura. Musica inclusa. Avverto un forte rischio di sostituzione etnica anche nella canzone italiana. Globalizzare non è annullare le peculiarità tipiche di un popolo, sia ben chiaro>>.

Un’affermazione forte e provocatoria, senza dubbio.

<<Quello che oggi si vuol far passare per musica italiana è tutto fuorché made in Italy. Dai look ai generi, dagli arrangiamenti ai suoni, dalle composizioni alle melodie e alle strutture armoniche e melodiche: tutto ci rimanda a una abnegazione di ciò che siamo da sempre, e cioè il Paese della melodia e del bel canto, del tutto entrambe scomparse a favore di voci totalmente svuotate del valore della sperimentazione vocale propriamente detta, dell’intonazione basilare, e della ricerca di emozioni. Non esistono più le pause, i silenzi, i ponti musicali… Tutto è ritmo e un insulso ritornello, tutto è rima e filastrocca. Siamo un Paese privo ormai di qualsivoglia possibilità di autodeterminazione artistica, almeno a livello di sette note e discografia. Pare quasi che ci vergogniamo delle nostre radici. Se ascolti la radio, non c’è più spazio per pop melodico, partenopeo. Per soul, blues, funky: insomma, per generi occidentali. Quelli che ci appartengono, ma solo stilemi tipici delle realtà caucasiche o arabe. Pura fiera dell’est, e mi perdoni Branduardi se prendo a prestito uno dei suoi titoli più fortunati. E’ ora di far ritorno di corsa alle origini. A ciò che realmente siamo, per cui ci amano da sempre nel mondo. Ciò per cui, per dirla con il titolo di una fortunata canzone del buon Nek, siamo unici: la melodia, suonata e cantata>>.

Gli ultimi dati diffusi da FIMI parlano di una crescita del mercato mentre, in realtà, tutti gli indicatori che ci arrivano in modo, forse, più soggettivo ci dicono il contrario: testimoniando uno scenario che si impoverisce, un settore che non ha i soldi necessari per gli investimenti, un mondo dove mancano le risorse per lo scouting… Dove sta, dunque, la verità?

<<La discografia italiana nel suo complesso, stando alle stime più attendibili e recenti, non supera i 150/160 milioni di euro: davvero briciole per piccioni affamati, rispetto ai volumi di una qualsiasi azienda merceologicamente seria. Chi all’interno del sistema vuol far credere, da buon illusionista bugiardo, infingardo e ammaliatore, che la musica sia diventata un gigante di mercato, una sorta di Attila conquistatore di terreni impensati anche a livello economico, si basa esclusivamente su quanto di più subdolo ed inutile esista: il like, lo streaming e, dunque, l’acquisto, quando questo avviene, della musica digitale. La musica è finita, smaterializzata. Ed ecco che ciò che di essa rimane, alias la fruizione online, che determina percentuali che chiamarle tali sembra quasi pronunciare una bestemmia, diventa un fatto con cui misurare un mercato più per volumi di quantità effimera che di reale qualità: legata, cioè, agli utili economici che compongono la parte positiva e produttiva di un bilancio d’impresa. Avanti di questo passo, credo che discografici e operatori dell’industria musicale si ciberanno di cristalli liquidi, e vivranno di elemosine>>.

Tirando le somme, dunque?

<<Ritengo che la discografia abbia compiuto l’errore più grosso tra quelli che aveva a disposizione: dematerializzarsi, svilirsi e abnegarsi, perdendo di fatto il cd, che rappresenta il pallone d’oro della musica. La discografia ha fatto dell’oggetto compact-disc  la propria più grande sconfitta: il baluardo che doveva essere difeso si è trasformato in una sorta di specchio in cui annegare la propria vacuità. E’ diventata schiava della dei click, di una maxi-fregatura digitale. Tutto ciò ha fatto passare il concetto che la musica, in quanto linguaggio universale, dovesse diventare anche linguaggio accessibile a tutti, e per giunta pretestuosamente gratuito. La musica, però, è fatta di persone che lavoro, che consumano energia, che pagano affitti, che sostengono spese, che si spostano, che devono vivere: e che, quindi, devono necessariamente appartenere a un sistema economico di scala all’interno del quale si misura anche il valore della prestazione propriamente resa>>.

In tutto questo, come si pone il cambiamento dei mezzi di comunicazione di massa?

<<Nel frattempo, la grande diffusione dei media in puro stile social ha fatto sì che la discografia si annacquasse come una goccia in un mare, senza riuscire più a ridefinire i propri limiti e i propri contorni. Credo che l’industria musicale italiana rappresenti uno dei settori più asfittici dell’economia anzi, che non lo rappresenti per niente perchè i volumi che muove e le micro percentuali che genera, che insieme danno apparentemente volumi globali percettivamente importanti, come già detto prima sono così atomicamente invisibili da non essere nemmeno più considerabili parte sostentante del PIL nazionale. Cibo per poveri, insomma, o poco più>>.

Tornando al lato artistico, se pensiamo alla tradizione musicale italiana ci vengono in mente due grandi scomparti: la scuola cantautorale (Dalla, De Andrè, De Gregori…) e le grandi voci femminili delle interpreti (Mina, Mia Martini, Giuni Russo…). Oggi viviamo in un momento storico in cui, probabilmente, non abbiamo nè una nè l’altra perchè mancano sia le grandi voci (che si ci sono vengono oscurate, o costrette a fare altro) che i grandi cantautori della tradizione. Che cos’è allora la proposta della musica italiana, e perchè son venute meno queste due categorie?

<<Fare il cantautore significa prima di tutto vivere e soffrire partendo da un’esperienza propria unica e inimitabile che si fa minimo comun denominatore nel momento in cui viene resa di dominio pubblico, facendo altresì leva anche sulla capacità di immedesimazione del pubblico che si può riconoscere su di una serie di emozioni e sensazioni proposte e condivise in un’ottica di massa. I cantautori e le grandi interpreti della nostra tradizione hanno tutti in comune una cosa: sono persone che derivano da epoche irripetibili in cui, a partire dagli anni ’60, si iniziava a respirare un boom economico che faceva dimenticare i grandi sacrifici di un conflitto bellico senza precedenti. Il valore della ricerca, della formazione, della competizione, e il ruolo fondamentale dell’accademia della vita assumeva così la funzione di motore propulsore di tutta una serie di contenuti positivi, a differenza di oggi>>.

Altri tempi, certamente.

<<I cantautori che tu hai citato cantavano la vita inneggiando all’amore, e lo facevano con rabbia: però, una rabbia positiva che si rifaceva ai valori della grinta, dell’energia, del rimboccarsi le maniche per costruire un mondo migliore, mica per mostrare muscoli e tatuaggi come invece avviene oggi. Una rabbia totalmente diversa da quella dei ragazzi contemporanei, dei millenials privi di significato e pronti a dire sempre la loro, pur di esserci, senza mai dire però realmente nulla di interessante, fatte salve rarissime eccezioni. Erano persone che raccontavano la rabbia per ripartire, la rabbia del desiderio di volere dare a tutti parte di quel benessere di cui, forse, ci si riteneva ingiusti detentori perchè derivava proprio dai sacrifici dei padri>>.

Un’altra Italia, come dire, convieni?

<<L’Italia del post-guerra era un’Italia che cercava il bello in tutto: dall’architettura, al design, all’industria automobilistica. Le cantanti, da parte loro, ricercavano la stessa tenue bellezza primaverile che per tanto tempo si era dovuta nascondere di fronte all’evidenza di un conflitto che tutto devastava. In qualche maniera, cantautori e belle voci rappresentavano il rifiorire di questo perduto gusto estetico che oggi è sostituita dalla rabbia e dalla bruttezza del ghetto e delle periferie, dalla totale assenza di prospettive verso il futuro. Fortuna che esiste Franco Battiato e con lui Fiorella Mannoia. Fortuna che sono esistiti Pino Mango e Pino Daniele. Fortuna che esistono e resistono ancora artisti cult come Andrea Mingardi e Valerio Liboni de I Nuovi Angeli, cui faccio pubblicamente i complimenti per il nuovo ‘Questa è la mia via’, un disco ad alta intensità. Fortuna che oggi abbiamo ancora stelle inarrivabili e di prima grandezza assoluta come Antonella Ruggiero e Roberto Colombo: uniti nella vita e nell’arte, grandi con i Matia Bazar, ancor più grandi come solisti entrambi da 23 anni a questa parte. Questa è la musica italiana, quella vera: amata e conosciuta da sempre e per sempre in tutto il mondo. Gente che non ha mica bisogno di gossip per far parlare di sé, lasciando spazio soltanto alle note>>.

In tutto questo, qual è il valore delle scuole e delle accademie musicali?

<<Un tempo avevamo tanti cantanti, ma non esistevano maestri di canto: le voci fiorivano da sole, si affermavano come genio puro della voce stessa e del canto, e avevano soltanto bisogno di trovare terreno fertile grazie a un pool di discografici che sono riusciti a creare le condizioni necessarie per fare emergere quelle ugole d’oro: che ancora oggi, in parte, abitano la nostra scena musicale. Oggi assistiamo a un pullulare di accademie dirette da qualsiasi pianobarista o cantante di successo o meno, che improvvisamente all’anagrafe degli artisti falliti si autoribattezza come ‘vocal coach’, inglesizzando anche le sconfitte. Pazzesco! La cosa mi fa anche abbastanza ridere: io, imprenditore, apro un’accademia di bel canto nel momento in cui il mercato mi richiede quel prodotto, non quando ci sono appena 2 o 3 festival canori che riescono ancora malapena a sopravvivere, e di spazio per i bravi cantanti non ce n’è più neanche in un format ‘tradizionalista’ come ‘Amici di Maria de Filippi’>>.

Che senso ha questo scenario?

<<Le accademie, o presunte tali, come preferisco dire, oggi non servono a un’Italia profondamente sorda e scioccamente resistente di fronte al richiamo del bel canto. Oggi rappano, trappano: cantare? Carneade, chi era costui? Manzoni docet. Ma chi è quel pazzo scriteriato, quel demente o quella capra testarda, per dirla con il caro Sgarbi, che si ostinerebbe ad allevare bovini in un mondo ormai quasi del tutto vegano? Chi ha orecchie per intendere, intenda. Oggi le ‘accademie’ di cui parlo, e lo dico apertamente tra virgolette perché la cultura e la palestra musicali non transitano certo da lì, sono per lo più biechi strumenti per meteore dello showbusiness o puri re magi demodé durati una stagione o poco più. Semplici pretesti fuori luogo per artisti riesumati reiventatisi dal nulla per lo più docenti senza titolo che faticano a sbarcare il lunario. A mettere insieme colazione, pranzo e, quando va bene, anche la cena>>.

Che mi dici di quella che per tanto tempo è stata anche una tua mansione nel mondo della musica: il ruolo dell’ufficio stampa?

<<E’ finito. Non ha più senso: i social hanno reso inutile la figura del comunicatore, perchè basta un tweet affinché qualsivoglia media possa costruire una notizia senza bisogno di una figura che gli fornisca comunicati ufficiali. E che, soprattutto, scriva testi senza errori o refusi. Che possieda una specifica e serie cultura della corretta e sana comunicazione. Credo che oggi chiunque scriva a ‘Recensiamo Musica’ possa trovare ampio spazio anche senza bisogno di un ufficio stampa che lo proponga e, qualora non lo trovi, è perchè ancora esistono dei direttori che, come te, Ilario caro e stimato, sono saggiamente capaci di discernere, con l’aiuto di una redazione valente, che cosa sia interessante da ciò che non lo è, e i numeri ti danno ragione. L’addetto stampa in campo discografico-musicale, oggi, non è che storia dell’antropologia, un ruolo di mera sopravvivenza derivante da una lontana e remota preistoria della storia dei mestieri moderni: può servire, forse, ancora a Laura Pausini o a Ligabue, ma da lì in giù non serve davvero più a niente. Gli artisti si possono contattare benissimo tutti per lo più su Facebook, e la figura di chi s’incarica di far da filtro è inutile. L’ufficio stampa non serve a nulla perchè non c’è più nulla di comunicare: la curiosità di oggi annulla qualsiasi anteprima che l’ufficio stampa potrebbe offrire>>.

Parliamo del 2019, un anno che, nella mia personale lettura, è stato, finora, un anno di svolta perchè non un big, o presunto tale, è riuscito a sopravvivere mantenendo il ruolo che finora detenevano anche se con crescenti difficoltà. Ci sono Laura Pausini e Biagio Antonacci che annunciano il tour dell’anno ma che poi registrano risultati tiepidi, Ligabue non raggiunge il quarto di biglietti venduti in uno stadio, Tiziano Ferro con il singolo estivo è riuscito a malapena a prendersi un disco d’oro, Francesco Renga e Nek che vanno a Sanremo ma nessuno si ricorda già più che ci siano stati davvero… Siamo di fronte alla crisi definitiva dei grandi idoli degli anni ’90?

<<Sono sempre stato un convinto sostenitore che due metà non fanno un intero, e quindi il fenomeno che hai palesato nella più che attuale domanda denota il declino e la fine di un mondo che, come i dinosauri, sparisce sulla linea dell’orizzonte, pur essendo stati dei grandi predatori e dei dominatori assoluti. Credo che tutti questi grandi artisti pecchino di spettacolarizzazione: forse hanno sottovalutato il fatto che le mode del momento non si sconfiggono con il gigantismo o con i fasti di grandi presentazioni e iniziative di marketing. A lungo andare, il meccanismo stanca pubblico e artisti che sanno bene di mentire anche a sé stessi. Abbiamo assistito a vari trii o strani accocchi sperando di essere ciascuno la motrice e l’altro il rimorchio, ciascuno il collante e l’altro il coccio riattaccato. Dai Palasport a Sanremo, i giri di potere che contano e le primarie agenzie di booking hanno proposto sfigatissimi caroselli di big tutte carrozze ferroviarie rotte senza nessuna vera motrice a triano. La musica italiana ha subito una profonda crisi strutturale implosiva anche dal punto di vista del gusto autodeterminato proprio e autoctono che è stato profondamente, violentemente attaccato dal suono estero, e senza alcuna difesa, per giunta. La nostra musica, e quindi i nostri grandi artisti che hai citato, non sono stati in grado di autodeterminarsi e di difendersi da queste ondate d’invasioni migratorie mantenendo ciò che è stato proprio da sempre>>.

Non so se sarai d’accordo con me, ma credo che rispetto a due o tre anni fa la tua opinione sui talent show possa essere cambiata. I talent sono stati per anni sulla bocca di tutti: qualsiasi cosa succedesse nella musica era colpa (o merito) dei talent show a seconda di come la si vedeva. Oggi, invece, mi sembra stiano vivendo un periodo di declino determinato dal fatto che lo spazio a disposizione è finito. La riflessione che però volevo sviluppare con te è la seguente: se 10 anni fa Giusy Ferreri o Alessandra Amoroso rappresentavano il male peggiore oggi, la situazione si è ribaltata e quegli stessi artisti appaiono come i salvatori della musica tradizionale italiana rispetto all’ondata rap di Sfera Ebbasta o Ghali.

<<Considero ancora i talent show uno dei mali peggiori per i giovani artisti che vivono la musica come una competizione più che come stimolo di ricerca ed evoluzione. I talent show hanno portato tanta fortuna a Mediaset (e a chi l’ha imitata), a chi fa pubblicità e a Maria de Filippi della quale apprezzo comunque lo stile, l’enorme cultura televisiva e la capacità di indirizzare le proprie creazioni spettacolari verso il gusto popolare pur non condividendo il valore di questi suoi programmi. Devo ammettere che ho avuto anche modo di rivalutare alcuni artisti usciti dal mondo dei talent show: una su tutti è proprio Alessandra Amoroso che, indubbiamente, è una grande cantante, una seria professionista e soprattutto una persona per bene che non ha mai dato prova di divismo, ma è sempre apparsa sincera e misurata. Apprezzo anche l’energica e coraggiosa Emma, che stimo e cui faccio prontamente i migliori in bocca al lupo per tornare presto a ruggire sui palcoscenici. E con lei anche il virtuoso ed eclettico Marco Mengoni: tutti pur sempre dei giganti della musica rispetto a tanti altri neonati ragazzini inutili che negli ultimi sono riusciti a resistere sul mercato appena sei mesi nei casi migliori. Al tempo della grande generazione dei talent show c’era la voglia da parte degli autori televisivi e del pubblico stesso di venire a un compromesso che consentisse di cercare un beniamino che avesse una vita artistica duratura. Oggi, invece, no, purtroppo. La musica è come lo yogurt: dura giusto il tempo di un cucchiaio>>.

C’è invece qualcun altro, al di fuori del talent, cui ti senti di tributare un plauso speciale?

<<Ho rivalutato moltissimo Ivana Spagna: il nuovo singolo appena sfornato ‘Nessuno come te’ è un perfetto esempio di canzone italiana moderna e credibile, anteprima di un album cantautorale di spessore e musica vera che speriamo possa condurla a Sanremo. Donna e artista stupenda, di rara cultura, generosità e verace sensibilità con cui ho collaborato in passato alla scrittura di ben due libri, è un esempio di umiltà e lealtà come pochissimi nella canzone italiana. Una persona perbene che ha sofferto, ha lottato, ha vinto, sempre attenta alla qualità e alla coerenza: e a cui andrebbe giustamente dato ben più spazio, senza dubbio>>.

Un altro nome del pop italiano secondo te degno di menzione?

<<Un’attenzione speciale meritano davvero anche i Matia Bazar 3.0 di Fabio Perversi su cui poco, pur stimandoli molto anche per un fatto di amicizia personale, inizialmente avrei scommesso: in due anni hanno fatto una marea di date in Italia e all’estero, con passi da gigante sul profilo della credibilità di un ensemble difficile da riattualizzare, e rodando al meglio uno spettacolo fluido ed efficace che convince, ed è sempre più richiesto da impresari e management. Luna Dragonieri è una performer completa, al livello di Giorgia e Antonella Ruggiero, nulla da eccepire: tecnica e pathos notevoli, presenza scenica da vendere, una leonessa in scena a metà tra grinta ed eleganza. E, soprattutto, va ben detto che oggettivamente è l’unica interprete dei Matia, dopo la voce originale, in grado di eseguire alla grande e personalizzare in pura tonalità originale i repertori di tutte, ma proprio tutte le interpreti che si sono susseguite quali front-woman. Anche e soprattutto di canzoni legate a epoche d’oro preziose della band ligure che non sentivano più dal vivo da lunghi decenni, a seconda di chi fosse la vocalist del momento. Meritano più visibilità, spero gliela diano, considerando che nel 2020 il gruppo genovese compirà ben 45 anni di attività. Confido in Amadeus: rivederli a Sanremo numero 70 sarebbe di certo un’emozione, loro che di Festival ne hanno vinti ben due, con l’iconica Antonella Ruggiero nel 1978 e la brava Silvia Mezzanotte nel 2002. Io e l’amico critico musicale Lele Boccardo lo diciamo a gran voce in coro da sempre. Sarebbe certamente un positivo e meritato redde rationem a una grande porzione di storia della musica italiana ancora viva e presente ben proiettata anche nel futuro con la nuova, ringiovanita a line-up. Oltre che un giusto riconoscimento al Capitano Giancarlo Golzi, batterista e fondatore, anima e motore del gruppo sino al 2015, che benevolo li assiste, guarda e fa il tifo per loro da Lassù>>.

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Ilario Luisetto

Creatore e direttore di "Recensiamo Musica" dal 2012. Sanremo ed il pop (esclusivamente ed orgogliosamente italiano) sono casa mia. Mia Martini è nel mio cuore sopra ogni altra/o ma sono alla costante ricerca di nuove grandi voci. Nostalgico e sognatore amo tutto quello che nella musica è vero. Meno quello che è costruito anche se perfetto. Meglio essere che apparire.