A tu per tu con il musicista milanese, in uscita con l’album che segna il suo esordio da cantautore
Si intitola semplicemente “Canterò” il disco che traccia l’inizio del nuovo percorso artistico di Paolo Jannacci, pianista e compositore con alle spalle una consolidata carriera jazzistica, oltre che importanti esperienze in veste di direttore d’orchestra. Figlio del grande Enzo Jannacci, è riuscito a racchiudere all’interno di questo lavoro varie anime, sincronizzando le generazioni in un’unica direzione: quella della qualità estetica e dei contenuti. Ad impreziosire il tutto, le interessanti collaborazioni con J-Ax e i Two Fingers, che sottolineano l’importanza della contaminazione e la voglia di sperimentare nuove soluzioni, sia dal punto di vista musicale che per quanto concerne il linguaggio.
Ciao Paolo, partiamo da “Canterò”, oltre a metterci la voce per la prima volta ti cimenti anche come autore dei testi. Cosa hai avuto l’esigenza di raccontare?
«L’urgenza purtroppo non ce l’ho avuta perché ho impiegato quattro-cinque anni per scrivere questo lavoro, se avessi avuto l’urgenza sarebbe stato meglio (ride, ndr). Sicuramente avevo voglia di raccontarmi, esprimere il mio pensiero sulla vita e sul mio rapporto con la musica. Mi piace raccontare storie, un po’ come faceva mio padre, lui lo faceva in maniera nettamente migliore perché aveva un altro tipo di acutezza. Ho deciso di cimentarmi col canto perché nel tempo mi sono accorto che la mia voce non era così poi così male, o meglio non mi hanno mai tirato lattine sul palco. Dopo un lungo lavoro di produzione sono arrivato a questo disco di canzonette, un inizio di cui vado molto fiero».
Sette inediti e tre cover, una di Luigi Tenco (“Com’è difficile”) e due di tuo papà (“E allora…concerto” e “Fotoricordo…il mare”). Cosa ti ha spinto a scegliere di reinterpretare proprio questi tre pezzi?
«E’ un album che ho realizzato con il cuore, non ho meditato troppo. Ho scelto questi pezzi per il semplice piacere di cantarli, il brano di Tenco lo avevo già provato con il papà per un disco che poi non è mai uscito. Un brano che mi ha sempre stregato e che mi ha dato la possibilità di partire, perché è il primo che ho cantato davanti ad un pubblico importante in occasione della trasmissione in suo onore condotta da Fabio Fazio. Le altre due sono due canzoni che ho visto nascere e con cui sono cresciuto, assimilando quell’energia. Per me era importante non finissero nell’oblio, perché sono i cosiddetti brani minori, a cui sono legato perché nel bene e nel male mi hanno formato».
Riguardo tuo papà, secondo te, qual è la caratteristica che più ci manca oggi di Enzo Jannacci?
«Secondo me, la capacità di concentrarsi su una storia e di raccontarla in maniera semplice ed efficace, pur mantenendo sempre un certo tipo di profondità. Le storie devono essere importanti e trasmettere una propria soggettività, senza soffermarsi troppo sull’esterno e sul contenitore, altrimenti diventano parole vuote, un rumore di fondo, ci deve essere o il silenzio o la musica. La musica è diventata rumore rosa, bandirei chi la utilizza come sottofondo, che senso ha? Un musicista perde settimane per masterizzare un disco per poi essere ascoltato in maniera distratta. Per tornare alla tua domanda, oggi come oggi, ci dovrebbero essere più storie semplici con un’attenzione al contenuto».
Lo hai definito un disco che mette in sintonia tre generazioni, spiegaci meglio…
«Alla tenera età di quarantasette anni mi sono ritrovato a fare un disco di musica leggera, oltre a far riflettere deve essere anche un passatempo. La prima generazione che inevitabilmente mi ha influenzato è stata quella del papà e dei suoi colleghi, da Giorgio Gaber a Umberto Bindi, passando per Sergio Endrigo, personalità talmente importanti dal punto di vista creativo che mi hanno segnato. Poi ci sono stati miei ascolti, la seconda fase, quella con cui mi sono formato, un suono molto americano tipico della West Coast, un certo tipo di rock con i suoni ben definiti. Infine la terza generazione, quella attuale, espressa dalla contemporaneità e che può essere riassunta dal mio rapporto con Danti o con J-Ax, con i quali ci si cimenta in esperimenti sia sonori che linguistici, tipo il cambio di accenti, la destrutturazione delle frasi e delle parole tipica del rap».
Lo scorso febbraio abbiamo avuto modo di apprezzarti sul palco dell’Ariston di Sanremo come ospite di Enrico Nigiotti. Adesso che ci metti anche la voce, ti piacerebbe partecipare in gara?
«Sì mi piacerebbe, anche perché il Festival è il momento più alto della musica italiana, ti dà una grande visibilità, se riesci a scollarti un po’ da questo elemento prettamente commerciale, diventa davvero la festa della canzone. A Sanremo c’è una tensione fortissima, l’ho imparato sulla mia pelle andandoci in tutte le salse, tranne che come cantante, alla fine quello che conta è far divertire il pubblico, tutto il resto non conta. Per questo motivo proverò sicuramente a mandare un brano, se mi vogliono io ci sono!».
A chi ti piacerebbe arrivare con questo disco? C’è un pubblico particolare a cui ti vorresti rivolgere?
«In realtà no, mi piacerebbe arrivare a chiunque abbia voglia di ascoltare e di trascorrere una quarantina di minuti insieme a me, ad un certo tipo di musica fatta di qualità e di cuore. Il mio pubblico è veramente eterogeneo, suono con piacere per la signora che seguiva mio papà sia per l’adolescente che mi ha visto sul palco con J-Ax. Entrambi per me sono identici, meritano lo stesso impegno e la stessa professionalità».
Per concludere, qual è la lezione più importante che ti ha regalato la musica in questi anni di attività?
«La musica ti mette a nudo rispetto all’ascoltatore, specialmente nel jazz esteriorizzi la tua soggettività, chi ti ascolta senza mediazioni capisce un po’ come sei fatto. La musica mi ha insegnato l’arte dello spogliarsi e del dare il massimo, perché dall’altra parte c’è chi ti sta dedicando del tempo e non è una cosa affatto scontata».
© foto di Simone Galbiati
Nico Donvito
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