venerdì 22 Novembre 2024

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Canzone per te: dentro il testo di “Fateme cantà” di Ultimo

Entriamo dentro il testo di una canzone per comprenderne il significato

Nuovo appuntamento con Canzone per te, la rubrica che ogni settimana ti porta alla scoperta di una canzone diversa, cercando di capire il significato e il messaggio che vuole trasmettere attraverso la sua musica e le sue parole. La canzone protagonista di questa settimana è Fateme cantà di Ultimo; si tratta del singolo facente parte dell’album Colpa delle favole, pubblicato nell’aprile 2019 e certificato con due dischi di platino per le oltre 100 mila copie vendute. Fateme cantà, come affermato dallo stesso artista, è una canzone in dialetto romano a difesa degli ultimi contro il potere.

«Che giornata, che giornata, so’ distrutto, eh, so’ distrutto. Camerie’, portame er vino»: sono queste le parole con cui si apre il brano. L’artista si sente particolarmente stanco dopo una giornata colma di impegni e appuntamenti di vario genere; la vita di un artista di successo, infatti, non è sempre fiabesca e favolosa come si potrebbe pensare. Da queste parole emerge chiaramente anche la necessità da parte dell’autore di isolarsi e di ritagliarsi uno spazio per sé stesso, in cui poter riflettere e rilassarsi.

Egli avverte anche fortemente il bisogno di cantare e di esternare i suoi pensieri e le sue emozioni. Inoltre afferma di essere stufo di essere contornato da gente “che me parla ma nun dice niente”, proprio a dimostrazione del fatto che spesso, a contare, non sono le tante parole, ma i contenuti: «Fateme cantà, che ‘n c’ho voglia de stà co’ sta gente che me parla ma nun dice niente, eh».

L’artista romano si sente anche innervosito da tutte quelle persone che chiedono una foto, quando lui sarebbe il primo a voler scambiare due parole con loro, per conoscerli meglio e sapere se le parole contenute nelle sue canzoni siano arrivate al cuore della gente: «Fateme cantà, che me ne sento anche un po’ innervosito da sta gente che me chiede na foto, io vorrei parlaje de loro, oh oh oh».

Il successo, nella società odierna, sembra essere la stella polare per molti individui; sono innumerevoli infatti le persone che ambiscono a raggiungere questo traguardo. Talvolta, però, si tende erroneamente ad accostare il successo alla felicità, che sono due termini ben distinti tra loro. Una persona di successo, infatti, non è necessariamente felice (e viceversa). Indubbiamente il successo può essere un ingrediente importante per raggiungere la felicità, ma da solo non basta.

L’autore, infatti, nonostante da un lato sia fiero dei risultati ottenuti e della sua carriera in continua ascesa, dall’altro si sente in colpa per aver inevitabilmente trascurato gli affetti personali e le amicizie più vere e sincere. Da qui si manifesta, in maniera ancora più chiara ed evidente, il suo bisogno di isolarsi dal mondo circostante ed immergersi, anche solo per un attimo, in un’oasi di tranquillità: «Fateme cantà, sto a impazzì appresso a troppe esigenze. C’ho bisogno all’appello de dì che so assente. E, e fateme cantà, pe l’amici che ho lasciato ar parcheggio, io che quasi me ce sento in colpa de ave’ avuto sto sporco successo che è amico sul palco e t’ammazza nel resto, oh oh».

Successivamente l’artista esprime di nuovo il disagio provato di fronte al “nuovo” mondo in cui si è trovato a seguito del successo raggiunto. Egli viene da una realtà completamente differente, fatta da gesti semplici, umili ma autentici; ed è per questo motivo che si sente “impacciato” nei rapporti con “questi in cravatta” che sembrano parlare un’altra lingua: «Fateme cantà, nun so’ bono a inventamme i discorsi. Sbaglio i modi, i toni, anche i tempi. Parlo piano, manco me sentiresti, eh. Fateme cantà, che a ste cene co’ questi in cravatta parlo a gesti, nun so la loro lingua, eh».

La strofa seguente evidenzia anche una notevole sensibilità e attenzione da parte dell’autore nei confronti dei soggetti più deboli e delle persone comuni. Ultimo, infatti, si riferisce a tutte quelle persone costrette, per qualsiasi motivo, a vivere per strada e in povertà, venendo emarginati dal resto della società. Egli si riferisce poi a quei padri e, più in generale, a tutti quei genitori che dedicano la loro vita al solo scopo di proteggere i sogni dei figli e di permettere loro di poterli realizzare: «Eh, fateme cantà, pe’ quer tizio che non c’ha più er nome, sta pe’ strada, elemosina ‘n core. Pe’ quer padre che se strigne l’occhi davanti a suo figlio pe’ proteggeje i sogni, oh». Con queste parole l’artista romano pone in luce l’importanza della musica che, oltre a un piacere e a uno “svago”, può rappresentare anche un sostegno, un conforto o un’ispirazione per quelle persone che attraversano un momento difficile.

Infine, l’autore vuole cantare anche per trovare sollievo di fronte ai ricordi e ai pensieri che lo tormentano e non lo fanno dormire, proprio perché se è vero che il successo “è amico sul palco”, è anche vero che “t’ammazza nel resto”: «Fateme cantà, pe’ sti gatti che aspettano svegli un motore pe’ starsene caldi. Pe’ i ricordi che me spezzano er sonno e a letto me fanno girà come un matto, un matto, un matto».

Significativo è pure il videoclip del brano, in cui compare anche Antonello Venditti, grande protagonista della musica italiana (anch’egli romano) e vero e proprio punto di riferimento per Ultimo; in particolare, emozionante è il momento in cui l’interprete di Notte prima degli esami e di tanti altri successi dà una “pacca” sulla spalla al giovane cantautore, quasi come un passaggio di testimone. Perché la musica, in fondo, è destinata a non fermarsi mai.