venerdì 22 Novembre 2024

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Alberto Fortis: “La musica è bella perché non fa né minacce né promesse” – INTERVISTA

A tu per tu con il noto cantautore di Domodossola, in uscita con il cofanetto “FORTIS – 1° officiALive

Quarant’anni di carriera per Alberto Fortis, uno dei nostri cantautori più internazionali e innovativi che, attraverso le sue opere, ha saputo nobilitare la canzone d’autore in tutte le sue declinazioni. “FORTIS – 1° officiALive” è il suo nuovo progetto discografico, disponibile negli store digitali e tradizionali dallo scorso 15 novembre, al suo interno le immagini e le registrazioni del concerto tenutosi lo scorso 9 giugno al Castello Sforzesco di Milano. Un cofanetto completo che comprende due cd, un dvd, un libro di sessantaquattro pagine, ricco di fotografie inedite provenienti dal suo archivio personale. In occasione di questa importante e celebrativa pubblicazione, abbiamo incontrato per voi l’artista per ripercorrere insieme alcune delle tappe fondamentali della sua straordinaria carriera.

Ciao Alberto, “FORTIS – 1° officiALive” è il titolo del tuo nuovo cofanetto contenente due cd, un dvd e un libro, che riassumono quarant’anni di vita e di musica. Cosa hai voluto inserire in questo progetto?

«La piattaforma principale del live è stata presa dallo show che abbiamo fatto al Castello Sforzesco di Milano lo scorso giugno, quarant’anni di carriera racchiusi in un’ora e mezza di spettacolo che abbraccia dai primi album fino ad arrivare ai nostri giorni. Devo dire che ci sono state delle convergenze davvero fortunate, nonostante si sia trattato di un evento dal vivo, tutto è andato come doveva, ovvero nel migliore dei modi».

Questo si sente, perché a livello di produzione il suono è perfetto, non è facile oggigiorno trovare questo tipo di qualità…

«Ti ringrazio, ma specifico che non si è trattato di un live che è stato rimaneggiato dopo, chiaramente abbiamo fatto i missaggi, le classiche cose che si fanno sempre, ma senza alterare il suono originale. Questo viene dal lavoro e dall’esperienza maturate insieme con la band e, soprattutto, dalla scelta di avere una produzione di forte essenzialità. Credo che siamo riusciti a raggiungere un risultato bellissimo, nella solidità e nella chiarezza comunicativa di questo concerto».

Il tutto impreziosito dal rodaggio maturato negli anni con i tuoi musicisti, la Milandony Melody Band, qual è stato il loro valore aggiunto e chi sono i componenti?

«Innanzitutto con ciascuno di loro si sta molto bene umanamente, il che è fondamentale. La band di base è composta da quattro musicisti: parto da un caposaldo, un compagno d’armi sin dagli esordi, ossia il bassista Franco Cristaldi, che faceva parte della formazione originale dei Volpini Volanti, o anche Flying Foxes, il mio storico gruppo per molti anni; alla batteria nel live c’è Joe Damiani, mentre adesso con noi come batterista c’è Ivan Ciccarelli; alle tastiere il Maestro Luca Fraula; alle chitarre salirà a bordo Stefano Grandoni; infine la nostra vocalist è Mary Montesano, già al lavoro con Franco Battiato, Tiziano Ferro e tanti altri artisti. Sul palco del concerto andato in scena al Castello Sforzesco, ho avuto il piacere di avere diversi ospiti, colleghi e amici come Rossana Casale e Francesco Baccini, musicisti d’eccellenza come Luca Rustici e Amedeo Bianchi, oltre che il Coro dei Piccoli Cantori di Milano, ottanta bambini che ci hanno raggiunto sul palco per cantare insieme “La sedia di Lillà” e “Mama Blu”, diretti dalla Maestra Laura Marcora».

Dopo quarant’anni di onorato servizio, che ruolo gioca la musica nella tua quotidianità?

«Per me la musica è come respirare, è sempre presente in qualsiasi ora della giornata, come si suol dire “siamo aperti ventiquattr’ore al giorno”, non c’è un momento dove è assente. Oggi la telematica aiuta molto, perché anche se sei per strada e ti arriva un’idea riesci ad immortalarla subito sul cellulare, per poi riprenderla e svilupparla successivamente a casa o in studio di registrazione. La musica continua ad essere l’asse centrale della mia vita, c’è una definizione molto interessante che mi piace particolarmente e che descrive questa forma d’arte come la più bella delle religioni, perché non fà né minacce né promesse».

Facendo un parallelismo tra i tuoi esordi e il mondo di oggi, pensi che sia più semplice o più difficile emergere dal punto di vista discografico per le nuove generazioni?

«Il parallelismo tra quando si cominciava una carriera un po’ di anni fà ed oggi è che il mondo è cambiato totalmente, la musica è diventato l’ambito artistico più saccheggiato, è evidente come tutta questa liquidità abbia portato un cambiamento epocale, a cominciare dalla prospettiva di lavoro delle case discografiche stesse. Per un ragazzo giovane ci sono dei pro e contro fortissimi, da una parte ci sono sicuramente molti più mezzi, dall’altra il traffico e le tempistiche sono aumentate, oggi magari è più facile arrivare, ma c’è più rischio di sparire dopo qualche mese. Una volta un album aveva, come diceva Salvatore Quasimodo, il suo giusto tempo umano (sorride, ndr), adesso se un singolo non funziona dopo tre o quattro settimane si rischia di buttare il lavoro di un album intero. Tutto questo ti porta in qualche modo ad affinare le armi, cioè a trovare una convergenza di tutti i lavori belli della musica, dalla scrittura alla comunicazione, passando per l’importanza delle immagini, diventa man mano una forma d’arte sempre più stimolante. Il mio unico augurio è che decada un po’ questa volgarità diffusa che non è né provocazione, né protesta, né proposta, bensì un autoincensarsi su cose che, onestamente, non credo rimarranno nel tempo».

Il tuo nome figura nella lista dei pochi eletti che non hanno mai partecipato al Festival di Sanremo, siete davvero pochissimi. Ecco, mi incuriosisce chiederti: è stato un caso o una scelta voluta?

«Diciamo nel mio rapporto con il Festival siamo ad una sorta di pareggio, nel senso che mi è stato chiesto diverse volte, soprattutto in un momento in cui Sanremo era molto tradizionalista, orientato più al pop che alla scrittura cantautorale. Poi, invece, ha ripreso negli ultimi tempi una grandissima forza, ben venga riuscire a prendere parte alla gara oggi, chiaramente non è un gioco facile, anche perché è diventato il Festival non solo della canzone, ma anche dello spettacolo, solitamente si tende a puntare su chi è già sulla cresta dell’onda, indipendentemente da quello che proponi».

La cifra tonda dei quarant’anni, richiama una sorta di bilancio, anche se ad alcune persone non piace troppo guardarsi indietro, ma nella vita capitano dei bivi, i cosiddetti “sliding doors”. Ecco, c’è un momento particolare in cui hai preso una decisione che ti ha portato in una determinata direzione, un momento cruciale per il tuo percorso?

«Ma guarda, se c’è credo sia stato a metà degli anni ’90, quando mi sono trasferito negli Stati Uniti, a fronte delle collaborazioni e degli album realizzati là già da prima, come il mio terzo album “La grande grotta” che vantava la presenza di musicisti d’eccellenza come Abraham Laboriel, Alex Acuña, Dean Parks, John Phillips e tanti altri, persone che al mattino erano al lavoro per l’album di Stevie Wonder e poi si ritrovavano il pomeriggio con me, con un mio grande timore reverenziale che puoi ben capire. C’è stato un momento in cui avrei dovuto realizzare un album prodotto da Gerry Beckley, il leader degli America, ma per motivi che non sono dipesi direttamente da me, purtroppo non si è concretizzato. Ecco, forse questo è il mio unico rammarico, perché alla fine era solo una questione finanziaria, ad oggi agirei in maniera diversa perché un treno così non passa spesso per un artista italiano, sarei pronto a correre qualche rischio in più. In linea generale, comunque, non ho mai preso decisioni comode, nel senso che non ho mai replicato le cose che mi hanno portato al primo posto in classifica, ho sempre seguito la musa, ma se mi guardo dietro sono fiero della coerenza e delle esperienze fatte che sono impagabili».

Per concludere, cosa ti ha insegnato di concreto la musica in tutti questi anni di attività? 

«La musica di concreto mi ha insegnato a celebrare la nostra vita, a celebrarla possibilmente attraverso la quotidianità, lo avevo scritto quasi ingenuamente, inconsciamente e istintivamente ne “La sedia di lillà” quando dico “cogli il giorno e tanto amore”, che poi è il fondamento di tutte le discipline umanistico-religiose, perché questo è un lavoro che ti può tradire molto, facendoti vivere in una bolla che può essere pericolosa. Grazie al cielo questa attitudine non l’ho mai avuta, in più la musica mi fà capire quanto sia necessario mantenere un atteggiamento sempre più naturale e sostanziale, è sicuramente molto difficile perché ognuno di noi ha le sue maschere, l’arte può essere anche una maschera meravigliosa, efficace e protettiva. Ogni volta che ho avuto il piacere di fare la conoscenza di grandi icone della storia della musica, parlo di Paul McCartney, Sting, Tina Turner e tantissimi altri, ho sempre visto in queste persone un aspetto di semplicità e un’attitudine diretta, piuttosto schietta, che mi ha molto colpito. Probabilmente arrivi lassù proprio grazie a questa caratteristica».

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.