Raccontiamo l’attualità con una canzone
Il western, che storia. Inizia sempre da un vuoto. Personaggi persi in uno spazio sconfinato senza tempo e senza destino, ma poi… Poi c’è un bandito, un indiano da cacciare, quasi sempre una donna. E si parte, in groppa al cavallo e con in tasca qualche soldo, verso il sole, con la propria ombra che si contorce sul terreno accidentato come creature alla ricerca della propria forma. Ed è silenzio, è solitudine. È musica.
Uno che l’aveva capito molto bene fu Fabrizio De André. Nel suo album, chiamato da tutti “l’indiano”, riempie ogni sfumatura western nella sua maniera poetica creandone un mondo nuovo, un western moderno. Ogni canzone è un inno a quel mondo là, a quella libertà là. Perché per essere liberi – e Dio solo sa quanto De André ambiva esserlo – bisogna sentirsi sia indiani che cowboy, sia prede che cacciatori, sia deserto che rifugi, sempre pronti a sparare e a dire frasi che appena pronunciate diventano eterne.. Frasi come queste: “se voleva un funerale adeguato doveva farsi ammazzare d’estate” o ancora: “Potremmo fare due passi e potresti baciarmi sulla veranda – Meglio sulle labbra.” E infine: “Quanto vale la vostra vita” “Cinquecento, nel Texas, con lo sconto del tuo culo.” Qualche puttana in lontananza, un po’ di whisky. Il resto, è musica.
Quella che riesco a riportare su questo articolo è questa: “Quello che non ho”. Non dico che sia un capolavoro perché quasi tutte le canzoni di De André lo sono. Di certo è una canzone che più l’ascolti e più capisci. Cosa, non lo so. So solo che ti è più chiaro un pensiero, quello per cui nasciamo al mondo per dire una cosa, una cosa soltanto, ma nell’unico modo possibile nella quale vada detta. Il resto è fuffa, e s togli tutta la fuffa, quello che rimane, è western, è musica. È De André.
“Quello che non ho
È una camicia bianca
Quello che non ho
È un segreto in banca
Quello che non ho
È questa prateria
Per correre più forte della malinconia”
È una cosa strana, ma più ascolti questo album e più ti si forma, davanti ai tuoi occhi, l’immagine nitida e potente di un prato, lunghissimo. Quello che abbiamo visto chissà quante volte nei film con i cosiddetti “campi lunghi”, ma anche quello che leggiamo nei libri quando un personaggio abbandona tutto e parte per conoscere il suo fato. Non che fosse un mondo poi così facile, quello là.. Una bevanda servita tiepida suggeriva allo straniero più di un ottimo motivo per un duello e una carneficina. Ma era anche la loro bellezza. Gente che raccontava una barzelletta in un saloon quando un tale in cerca di vendetta voleva sfidarlo a duello. Allora tutto il paese si riuniva ad osservare lo spettacolo. Partivano due colpi, uno più veloce dell’altro, e poi, come nulla fosse, ecco che quello ancora in vita rientrava nel saloon, e riprendeva a raccontare la barzelletta laddove l’aveva lasciata. Un altro mondo, un’altra libertà.
Credo abbia a che fare con l’appuntamento con il proprio destino. La vera differenza fra il nostro mondo e il loro, a parte gli indiani intendo, stia proprio nel gesto da compiere. Vite intere passate ad aspettare il gesto che dia senso alla loro vita. Un fuoco nel deserto, un bacio di una donna, un proiettile dentro il petto, vedere in faccia il proprio nemico. Quello era tutto per loro, la gloria e l’onore si consumavano nell’arco di tre secondi. E noi qui, a costruire carriere, a conquistare i nostri amori, a organizzare i propri studi per una vita apprezzabile. Per loro invece era tutto a portata del loro cavallo e della loro pistola nella cintura. Liberi di distruggere o di dar senso al loro destino. In loro, un’esistenza geniale. Il resto, è musica.
Una delle frase che più mi fa impazzire della canzone di De André è questa: “quello che non ho, è quel che non mi manca”. È una cosa piccola, piccolissima, ma di una profondità abissale. Sant’Agostino diceva che la vera libertà è desiderare ciò che si ha, ma anche non provare nostalgia per quello che non si possiede, non è male. Di certo, è una cosa difficilissima, al giorno d’oggi, non desiderare altro che se stessi, con tutto quello che ci viene tentato sugli schermi, sui telefoni e nelle infinite pubblicità. Ma se sei un cowboy non devi fare questo ragionamento, è già dentro di te, come una ferita di battaglia. Forse perché loro sanno che quello che conta nella vita non è tanto quello che possiedi e che quello che vendi, ma le mappe che ti costruisci. Geometrie invisibili che ti portano a disegnare un cerchio dal deserto a casa tua, o una linea retta dalla tua donna al tuo nemico per poi tornare indietro. E durante questo tragitto è natura, è bellezza, è vita. Poi ci sono violenze, morte e sangue. Ma è la geometria della vita, quella, e loro la conoscevano come le stelle nella notte.
Non nego che mi piacerebbe, come son certo sarebbe piaciuto a De André, sentirsi dei veri cowboy e dei veri indiani, almeno per una notte. Così, giusto per ritrovarsi di notte intorno al fuoco con degli estranei. Poi magari mi alzerei e salirei sul mio cavallo. “A dònde vas?” Mi chiederà uno. “A casa”. Il resto, è musica.
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