venerdì 22 Novembre 2024

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Luca Mattioni, una dura analisi sull’attuale creatività musicale – INTERVISTA

Intervista al produttore e musicista che ci racconta i “dietro le quinte” del mondo musicale

Prima di tutto musicista ma poi anche produttore, autore e arrangiatore, Luca Mattioni è da anni uno dei nomi di  punta della musica pop italiana seppur mai abbia scelto di forgiarsi di una presunta popolarità e abbia continuato a lavorare al servizio della musica e degli illustri artisti con cui ha collaborato. L’idea di scambiare quattro chiacchiere con lui ci è arrivata quando, qualche giorno fa, ha risposto via social ad un nostro articolo che tentava di gettare, in modo più o meno velato, un po’ di luce e qualche critica al modello di funzionamento e regolazione di alcune dinamiche riguardanti il mondo dell’autorato e della produzione musicale in Italia. Ne è nata una bellissima analisi che ci permette di scoprire ancora più a fondo quanto avviene nei cosiddetti “dietro le quinte” del mondo dell’industria discografica e della creatività musicale per tentare di rispondere a qualche perchè che raramente professionisti della sua caratura accettano di discutere pubblicamente:

Allora Luca, partiamo dal pretesto con cui è nata la mia richiesta di fare questa chiacchierata, ovvero un nostro articolo che, diciamo così, metteva sotto accusa il mondo degli autori italiani denunciando la presenza di una sorta di monopolio (qui per recuperare l’articolo). Ai tuoi occhi è una descrizione che corrisponde al mondo autoriale italiano d’oggi?

<<Non so se monopolio sia la parola più corretta. Certamente in Italia, il ripetersi delle stesse firme all’interno di molti progetti dipende dalla capacità degli autori ma anche da un un atteggiamento molto conservativo da parte delle etichette. E’, in parte, sempre stato così anche se la diversità delle proposte in passato consentiva l’espressione di più linguaggi da parte di un maggiore numero di autori>>.

Quindi, andando alla sostanza, come funziona oggi il mondo degli autori?

<<Semplificando al massimo l’equazione oggi è la seguente: funzionano 1\2 brani di un autore (grazie all’efficacia della sua scrittura ma anche per merito dell’artista che li canta, del contesto, dell’esposizione, della promozione…) e si tende a replicare quella formula spesso e su più artisti. Una tendenza alla conformità in nome della ratio di rischio più bassa possibile. Le etichette non sono Onlus e, in parte, non le biasimo. Funziona un genere qualsiasi (che al giorno d’oggi arriva sempre dall’estero)? Determinati autori hanno scritto brani di successo basati su quel genere? La ricetta vuole che si usino il maggior numero di brani di quegli autori portandoli a scrivere con tanti e diversi artisti da immettere sul mercato. Qui inizia il primo corto circuito a mio parere>>.

Ovvero?

<<Può un autore, per quanto talentuoso e capace, scrivere per artisti molto diversi tra loro? La risposta, a mio giudizio, è ovvia. La conseguenza è che è l’artista che spesso si conforma al brano e non il contrario come sarebbe lecito, invece, auspicare perché, per quanta personalità l’artista abbia, il brano è la cosa più importante e per esserci, per andare in radio, per streammare su Spotify, molti sono disposti (sia perché ci credono e sia perché consigliati in tal senso) a cantare brani fuori contesto per loro, spersonalizzandosi e man mano perdendosi nell’imbuto pieno di cloni che questo atteggiamento ha generato>>.

Credi che il meccanismo che hai descritto valga non soltanto per gli autori ma anche per i produttori?

<<Certo, la questione “stessi autori” è legata alla questione “stessi produttori”>>.

Secondo la tua esperienza che cosa determina la formazione di questi “gruppi monopolistici”? È il mercato che premiando certi prodotti determina, in qualche modo, anche le fortune di chi quei prodotti li ha creati oppure è un meccanismo che nasce ancor prima dell’immissione sul mercato e quindi a partire dal mondo degli editori e degli artisti stessi che scelgono di affidarsi sempre agli stessi autori?

<<Su questo aspetto (cortocircuito numero 2) entra in gioco il ruolo fondamentale di Spotify che, voglio ricordare, è una media company e non una music company: c’è una differenza fondamentale. Il fine di Spotify e delle piattaforme basate sullo stesso principio è quello di generare traffico indipendentemente dai contenuti. La corsa agli ascolti da parte delle etichette, dunque, finisce per prescindere dai contenuti che vengono proposti: un brano di Prince ha lo stesso valore musicale di un brano di un signor X, ossia il valore che genera il suo streaming. Ragionando in questo contesto (il target di Spotify in Italia è fatto di principalmente da teen) perché un’etichetta discografica dovrebbe preoccuparsi della qualità dei prodotti che pubblica? La necessità artistica, qualora ci sia, rimane in capo all’artista e al produttore artistico che vogliono eventualmente fare un lavoro di qualità. Le etichette, come dicevo, non sono onlus e hanno ovvie e comprensibili esigenze di fatturato: l’unica cosa che imputo loro è la scarsissima differenziazione di contenuti che vanno, appunto, in schiacciante maggioranza verso un pubblico molto teen come Spotify richiede attualmente>>.

E questa è l’epoca della trap e del rap…

<<Le produzioni seguono da sempre questo iter ma vorrei fare una digressione tecnica ma essenziale per capire alcune dinamiche e rispondere a qualche “perché”>>.

Dimmi pure

<<Quando si parla di suono Motown molti ignorano che è nato da esigenze tecniche. C’erano artisti e band che giravano l’America per suonare e si fermavano a Detroit dove trovavano tutti lo stesso studio per registrare, gli stessi microfoni, gli stessi settaggi del mixer (dato che lo studio lavorava 24\7) che in parte determinavano quel tipo di sonorità (metodologia poi ripresa dal trio di produttori Stock, Aitken and Waterman all’Hit Factory negli anni ’80). Si può dire lo stesso dell’era punk dove, a livello sonoro, le produzioni scarne erano mero recording su 8 tracce. O del suono di Filadelfia… insomma gli esempi abbondano>>.

E questa che epoca è a livello di produzione?

<<Ora siamo nell’epoca delle software houses. Ricordo bene un articolo apparso su ‘Rolling Stone USA’ (Come vincere un Grammy con 3k dollari riferito a Billie Eilish, subito ripreso dai giornalisti nostrani) dove si parlava di quali software ha usato nella sua stanzetta per produrre il suo disco, quale computer, addirittura con i vari prezzi, omettendo però di dire chi ha messo insieme la produzione e curato i mix e il master: non certo ragazzetti alle prime armi ma super professionisti che hanno usufruito di uno studio di primo livello. In sostanza, articoli come quello, sono vera e propria promozione per software houses dove il claim è che “tutti possono fare musica” e diventare famosi. Da questo aspetto nasce la figura del producer attuale (che in realtà è un music maker). Non c’è nulla di male, sono i tempi che cambiano, peccato che, però, molto spesso quei producer siano tutt’altro che musicisti preparati (cortocircuito numero 3)>>.

Ma perché quindi se, con una spesa minima di un Mac e qualche plugin, tutti possono fare musica noi continuiamo a sentire le stesse identiche cose ovunque, molto più di quando i produttori avevano a disposizione poche macchine?

<<Personalmente riconosco l’80% dei suoni nei brani che escono essendo presets di plug in molto diffusi. Perché? Semplicemente perchè manca la cultura della produzione: molti non sono mai stati in uno studio al di fuori di casa loro, non fanno recording, non hanno know how, non hanno conoscenza armonica ne ritmica. In tre parole: non sono dei musicisti. Nei brani che escono si sentono spesso errori armonici, di fasi, divisioni ritmiche scontate. E’ come leggere un libro con la grammatica sbagliata. Ha successo? Rimane comunque sbagliata e imbarazzante. Spesso sono music makers ma altre volte autori che, facendo leva sulla paternità del brano, impongono la loro velleità produttiva. Capita spessissimo, molto più di quanto si creda>>.

Davvero?

<<Succede che si passa dal provino al mix e la produzione, è doveroso ricordarlo, è recording, mentre in questa filiera italiana “moderna” non esiste quasi più>>.

Questo a che conseguenze porta?

<<Il risultato è che quello che esce, molte volte, è il provino, senza musicisti, mixato e masterizzato. Con buona pace della qualità e della diversificazione… Ma per streammare su Spotify, in fondo, a chi interessa? Se poi il brano streamma con quella “produzione” (il merito, vale ricordarlo, è sempre del brano) il gioco è fatto; è stato sdoganato un altro producer. Qualità o no, non importa. L’etichetta ti dirà che ha streammato quindi la qualità non è più un argomento di discussione. Quel produttore che spesso è l’autore del brano verrà riproposto ad altri artisti interni all’etichetta e da lì prende origine il circolo vizioso. In questi termini il più grande produttore italiano dovrebbe quindi essere chi ha prodotto “Il pulcino Pio”>>.

Quindi, sostanzialmente, stai accusando una scarsa qualità dei produttori?

<<No, nel mondo di musica fatta bene e che funziona ce ne è eccome: ci sono tantissimi bravi produttori e altrettanti capaci musicisti. Basta cercarli. Anche in Italia sia ben chiaro. Semplicemente non si parla di loro quando esce un lavoro, anche di grandi artisti ( e perché si dovrebbe del resto ) quindi il grande pubblico non li conosce, non sono “esposti” non hanno hype , ma lavorano dietro le quinte e bene. E’ poi doveroso riconoscere che , ad esempio, che nella trap o nel rap si sentono differenze abissali di qualità produttiva tra le nostre releases e quelle americane. Il motivo non è il budget ma la divisione dei ruoli: dall’autore al produttore fino al mixing engineer e, importantissima, la presenza e l’impiego di musicisti da molti fatti sparire ( eppure negli States spesso chi programma le ritmiche è un batterista )  Del resto molti producer non sarebbero in grado di scrivere parti o registrarli o suonare senza l’aiutino del Quantize (funzione che ti mette a tempo la parte suonata). Per interagire con musicisti devi parlare una lingua che devi conoscere. Ne faccio fortemente una questione culturale: se continuiamo a dare solo questo materiale di basso livello, le nuove generazioni saranno in grado di ascoltare uno Stevie Wonder, un Dalla, un Battisti, gli Chic, i Beatles, Bowie, i Rolling Stones e capirne il linguaggio, la portata, lo spessore e la bellezza?>>.

Negli ultimi tempi la figura del producer sta diventando sempre più importante e nota a livello popolare: credi sia un bene o un male?

<<Innanzitutto hai usato un termine corretto, “popolare”. Essere popolare e avere successo sono due cose molto diverse. La risposta alla tua domanda, comunque, credo che sia che dipende. Se il producer (o, per meglio dire, il music maker) vuole fare l’artista va benissimo: del resto si cerca spasmodicamente il personaggio, quindi la trovo una normale conseguenza. D’altro canto, però, la cosa può divenire un male per l’artista che si trova prodotto da questi producer: quel tipo di figure non lavoreranno mai al servizio dell’artista stesso e intorno alle esigenze del medesimo ma cercheranno di imporre il proprio suono, spesso anche i propri brani che van di pari passo, a qualsiasi artista viene curato da loro. L’artista rischia di diventare, quindi, un mezzo per imporre il nome del produttore. Le conseguenze di tutto questo sono ovvie: tutto uguale, non importa chi canti, l’artista è il produttore. Poi c’è un’altra ragione…>>.

Ovvero?

<<E’ semplice: parliamo di ego. C’è ormai un bisogno di scrivere il nome del produttore (spesso sconosciuto) accanto al nome dell’artista: ma veramente interessa al pubblico chi produce un brano o un disco? A meno che non sia Pharrell la cosa mi risulta superflua e dettata, appunto, solo dalla voglia di apparire da parte del producer stesso>>.

Qual è il ruolo degli editori in tutto questo?

<<Marginale, gli autori conosciuti si muovono in totale autonomia e hanno molto spesso contatti diretti con le case discografiche e gli artisti: gli editori oggi fanno molta fatica a “piazzare” brani di autori nuovi o fuori dai soliti giri>>.

Se gli autori, si presume, dovrebbero essere scelti da un pensiero condiviso tra artista e produttore chi sceglie, invece, il produttore di un progetto e secondo quali criteri?

<<Non stai tenendo conto della figura del manager che spesso i brani li sceglie eccome. Poi dipende, sempre più spesso per il mainstream teen (che, ricordiamolo, riguarda un buon 80% dell’attuale proposta musicale) il produttore si sceglie dai follower su Instagram (ride). In realtà non siamo ancora arrivati a questo punto (fortunatamente) ma rimane vero che il prescelto deve essere personaggio “notiziabile”: spesso è l’autore dei brani, a volte è addirittura chi ha curato i provini dei brani perché almeno l’artista sta sereno. Più raramente oggi si sceglie un produttore “puro” e quasi mai viene scelto dopo alcuni test (cosa che, invece, si faceva un tempo)>>.

Spesso si dice che mancano le belle canzoni capaci di restare nel tempo e poi nei booklet degli album si leggono sempre gli stessi 15/20 nomi di autori e produttori: si scelgono sempre gli stessi perché sono gli unici che ancora riescono a dare una certa qualità, perché gli autori sono pochi in generale o perché, in qualche modo, la scelta viene circoscritta a priori? 

<<Credo che chiamare sempre i soliti autori (al netto della loro bravura che non metto in discussione) sia una garanzia di serenità per l’etichetta e per l’artista. Il ragionamento comune è: l’autore A ha scritto il brano X di successo, abbassiamo il rischio di tutti se chiamiamo lui/lei. Non va dimenticato nemmeno l’aspetto notiziabile del nome dell’autore ed il conseguente hype da social che in certe dinamiche sta diventando sempre più importante. Gli autori sono tanti e a volte gli editori ci provano duramente a “imporli” ma se l’autore di nome B non ha “piazzato” brani di successo, chi si prende il rischio di prendere un suo pezzo per quanto valido?>>.

Ma tutto questo non va a discapito delle canzoni?

<<Il brano è la prima cosa, spesso ce ne si dimentica. Veramente pensiamo che all’ascoltatore che si emoziona per un brano faccia la differenza chi ha scritto quel brano? Fa la differenza per l’etichetta, per l’editore, per la promo e per l’ufficio stampa che possono attirare così l’attenzione (è il loro lavoro del resto) sull’autore per spingere il brano in uscita. Un mio vecchio editore diceva “la musica si ascolta con le orecchie mica con gli occhi”, aveva ragione>>.

Il mondo dell’autorato italiano è sicuramente complicato ma è meritocratico a tuo giudizio? 

<<La conosci la frase “se sei veramente bravo ce la fai”? Ecco, secondo me, sarebbe più corretto dire “se non ce la fai c’è sempre un perché”… e i perché a volte non ineriscono all’aspetto creativo\musicale>>.

Come valuti personalmente il livello delle proposte musicali attuali nella scena discografica italiana? 

<<Ci sono autori, professionisti, fonici, musicisti di prim’ordine in Italia, i cui validissimi lavori sono promozionati molto poco, nel senso che nonostante il loro successo vengono raramente menzionati ( e secondo me ci sta )  Per la maggior parte di quello che maggiormente si sente non posso che risponderti che il livello è basso, molto basso, seppur con qualche eccezione. Ecco perchè spero vivamente in un ritorno alla divisione dei ruoli che consenta a tanti professionisti di poter fare il loro lavoro (fonici e musicisti su tutti)>>.

È risaputo che a volte gli artisti “impongano” in qualche modo agli autori di far risultare dei brani co-firmati anche quando, in realtà, non hanno partecipato alla scrittura. È una pratica diffusa secondo la tua esperienza?

<<Si, è una pratica molto diffusa>>.

Lo trovi un giusto compromesso per veder incluso un brano in un progetto?

<<Dipende, il compromesso è soggettivo e, a volte, non c’è davvero altro modo. Oltretutto i nomi, si dice, fanno vendere di più. La bontà del brano, qualora vi sia, rimane inalterata. La questione è etica, quindi personale>>.

La discografia ha ancora un ruolo in ambito musicale oppure ha perso ogni suo significato e valore? 

<<Certo che lo ha, qualora torni a diversificare le proprie uscite. Se prima si lavorava in funzione delle radio ora si lavora in funzione di Spotify che, a volte, pare essere la vera etichetta che direziona tutto verso i teen. Personalmente auspico una maggiore autonomia delle etichette e una visione più ampia verso target diversi: ricordo che anche i 30enni e i 40enni ascoltano musica come il resto del mondo ci dimostra in numeri >>.

Qual è, secondo te, il futuro della musica italiana sia da un punto di vista della proposta che da quello del mercato? Ci aspetta un momento di svolta/rottura oppure sarà una prosecuzione continua degli attuali paradigmi e modi di fare?

<<Sicuramente finché questo modus operandi porterà entrate si andrà avanti così. Non sono in grado di dire se pian piano ci allineeremo alle proposte che arrivano dall’estero e per qualità e per diversità; posso solo dire che la musica italiana è anche e soprattutto live: live fatto da artisti capaci e musicisti competenti. Live che non sono solo San Siro o il Forum di Assago ma anche tanti teatri, locali e clubs. La musica continua ad essere, anche e soprattutto, questo per cui c’è bisogno di studio, lavoro e preparazione perché le carriere si costruiscono con questi elementi con buona pace della hit estiva>>.

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Ilario Luisetto

Creatore e direttore di "Recensiamo Musica" dal 2012. Sanremo ed il pop (esclusivamente ed orgogliosamente italiano) sono casa mia. Mia Martini è nel mio cuore sopra ogni altra/o ma sono alla costante ricerca di nuove grandi voci. Nostalgico e sognatore amo tutto quello che nella musica è vero. Meno quello che è costruito anche se perfetto. Meglio essere che apparire.