Dal 13 ottobre disponibile nei negozi di dischi e nei digital store il nuovo album strumentale “Illegacy”
Tempo di nuova musica per Roberta Di Mario, compositrice parmense che ha già alle sue spalle diverse esperienze discografiche, uno dei fenomeni più interessanti del pianismo contemporaneo nazionale. Si intitola “Illegacy” (Warner Music Italy – Publishing: Red&Blue/Abiudico/ I Mean), l’album che segna il ritorno alle origini per questa artista che non ha bisogno certo di presentazioni e che, in passato, abbiamo già visto al fianco di grandi nomi del calibro di Roberto Vecchioni, Roby Facchinetti, Mario Venuti, Dionne Warwick e Sagi Rei. In occasione della presentazione milanese del disco a La Feltrinelli di Piazza Piemonte, abbiamo incontrato la talentuosa pianista che ci ha parlato delle fasi realizzative di questo progetto, raccontandoci il suo stato d’animo all’indomani della pubblicazione.
Ciao Roberta, partiamo dal tuo nuovo disco “Illegacy”, com’è nato e quale tassello rappresenta per il tuo percorso artistico?
«Rappresenta il mio viaggio di ritorno verso casa. Esordisco sempre così nelle interviste perché è un concetto per me molto importante nel senso che, venendo da due progetti discografici anche cantautorali, ho fatto ritorno in maniera totale alle mie origini e al pianismo contemporaneo che, in realtà, non ho mai abbandonato. Un progetto arricchito e vestito da arrangiamenti orchestrali, che hanno colorato una potente melodia trasformando ogni traccia in una potenziale soundtrack, infatti, il nostro obiettivo era quello di confezionare un prodotto che potesse interessare il mondo della cinematografia. Sicuramente è il progetto che più mi rappresenta ad oggi, anche se c’è ancora tanto da lavorare e da migliorare».
Quanto contano per te la dimensione live e il contatto per il pubblico?
«Sono fondamentali, rappresentano la magia intesa come vero e proprio potere della musica, la condivisione con il pubblico è il momento più importante per un artista. Trovo molto bello che uno spettatore possa pensare che quella performance, in quel preciso momento, è unica e soltanto per lui, perché in nessuna espressione artistica le esibizioni possono essere uguali. Per me è fondamentale avere un dialogo con chi decide di venirmi ad ascoltare, si crea un’alchimia che va’ al di là del singolo ascolto. Una sorta di interazione molto simile a quella che avviene sui social, ma diretta e molto più umana».
A proposito di web, il fatto che rappresenti una vetrina per chiunque, crea parecchia sovraesposizione e lo rende una specie di calderone. Come vivi il tuo rapporto con la rete?
«Lo vivo in maniera sana, comunico ciò che desidero comunicare, filtrando ciò che non è di mio interesse mostrare. Ho una bella interazione con le persone che mi seguono con affetto, si è instaurata una reciproca empatia anche attraverso lo schermo. Nonostante questo aspetto positivo, sono consapevole che la tecnologia possa creare troppa quantità e poca qualità. C’è spazio davvero per tutti, l’importante è che ogni progetto sia dettato dalla passione e dalla professione, dietro ad una proposta musicale vorrei ci fosse sempre un bel lavoro alle spalle, non condivido molto la velocità con cui spesso escono progetti nuovi. Oltre al team di lavoro, è fondamentale avere tempo per far sì che le idee possano sedimentare per arrivare al risultato finale con la massima qualità possibile. E’ la fretta di uscire che porta al calderone, rendendo ogni proposta povera di contenuti».
Quanto tempo c’è voluto per la realizzazione di questo disco?
«Innanzitutto fammi ringraziare il mio manager Marco Stanzani e tutta la Red&Blue, un team fantastico che ha creduto sin da subito in questo progetto. Detto questo ci sono voluti circa un paio d’anni, da quando ho iniziato a scrivere a quando abbiamo registrato lo scorso anno, poi in corsa è arrivata la Warner Music Italy che ci ha scelto e, di comune accordo, abbiamo deciso di slittare l’uscita dalla scorsa primavera a questo autunno. La cosa che succede di solito quando pubblichi un disco con così tanto lavoro dietro, è che i brani che hai scritto li senti in qualche modo vecchi, nel senso che mi sento già proiettata verso un nuovo progetto e ho già altri pezzi nel cassetto. Nonostante questo, la forza di ‘Illegacy’ è che ancora oggi mi emoziono tanto, sia quando li suono che quando li ascolto, sinonimo che abbiamo fatto un ottimo lavoro, di cui mi sento davvero molto soddisfatta».
Sei una musicista e rappresenti tra gli artisti della nuova generazione la massima forma d’espressione artistica d’autore, con eleganza e professionalità. Con che occhi guardi il panorama discografico intorno a te?
«Anche se mi sono spostata più sul pianismo contemporaneo, ovviamente, continuo a seguire la musica pop, in particolare il cantautorato che ho vissuto per diverso tempo. Ci sono progetti interessanti, abbiamo artisti italiani molto validi, ma amo molto anche la musica straniera, dico sempre che vivrei di Bach, Rachmaninoff, Debussy e Sting, il mio sogno sarebbe proprio collaborare con lui. Adoro Jovanotti per la sua sperimentazione e per la sua evoluzione, trovo che la volontà e la determinazione premino sempre, oltre ad un buon studio dietro e all’impegno che fa sempre la differenza. L’ascoltatore riconosce e apprezza quando c’è qualità».
Quali artisti hanno accompagnato la tua crescita e ti hanno fatto dire: ‘voglio fare musica’?
«Ho iniziato a suonare pianoforte all’età di cinque anni, ero davvero molto piccolina e ho cominciato in maniera del tutto inconsapevole. Ricordo che già scrivevo e componevo ai tempi dell’accademia, ma per la mia insegnante era più importante lo studio e il rigore, tarpando clamorosamente le ali alla mia creatività. Da lì è cominciato un percorso molto naturale, da questa impostazione molto classica mi sono poi avvicinata al jazz, ai grandi compositori di colonne sonore, come il Maestro Sakamoto che mi ha da sempre ispirata».
Quanto contano per te le contaminazioni?
«Moltissimo, nella mia vita ho ascoltato talmente di tutto che, inevitabilmente, non posso fare a meno di riprodurlo nelle mie composizioni. Noi siamo veramente non solo quello che mangiamo, ma anche quello che ascoltiamo, perciò quello che suono è influenzato dai moduli e dalle mille cose che ho sentito. Credo fermamente che ogni tipo di musica non sia etichettabile, compresa la mia. L’unicità di questo mio nuovo progetto prevede stili diversi, non perché alla base non ci sia un filo conduttore ben preciso, ma per la presenza di tante idee destinate a un pubblico trasversale».
Alla luce di tutto questo, per concludere, quale messaggio vorresti trasmettere al pubblico, oggi, attraverso la tua musica?
«Vorrei che riuscisse a sentire, non solo con le orecchie ma anche con l’anima, quello che io stessa ho provato quando ho scritto e partorito questi brani. Che s’instauri una sorta di empatia musicale, percependo un po’ di me dentro ogni singola traccia».
Nico Donvito
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