Un libro, una canzone: insieme
Cari lettori, avete presente quando accade qualcosa di bello senza che nessuno abbia fatto nulla perché capitasse, e quindi l’evento appare inaspettato e ancora più lieto? Un po’ come quando a Natale la zia della figlia dell’amico di nostro padre ci regala qualcosa di carino al posto del solito soprammobile a forma di fatina. Oppure come quando dietro sei barattoli di yogurt magro troviamo inaspettatamente la nutella. Ecco, il libro di cui parlerò oggi è stato letto da me a causa di un errore, e leggerlo e apprezzarlo è stata per me una vera sorpresa.
Convinta che mia sorella me lo avesse consigliato spassionatamente, qualche giorno ho deciso di prendere in mano la copia che avevo in libreria de L’amico ritrovato di Fred Uhlman, romanzo di non più di cento pagine che, a vederlo, non dice granché. Piccolo, un po’ sgualcito, dalla copertina giallognola e coperto da un grande adesivo con scritto “occasione sconto 50%”, non era proprio la mia prima scelta. Tuttavia, convinta che mi fosse stato indicato come un libro molto bello, ho cominciato a leggerlo.
Arrivata ad una trentina di pagine ho convenuto con mia sorella che no, non è affatto male. Scorrevole, veloce, d’atmosfera, un libro che si legge in un paio d’ore seduti sul divano e sprofondati sotto una coperta di lana. A quel punto mia sorella ha detto di non avermi mai consigliato quel libro. Che me lo sia immaginato? Che lo abbia scambiato con qualche altro romanzo che mi è stato consigliato? Da dove sia nata la mia convinzione di dover leggere L’amico ritrovato, dunque, è ancora un mistero.
Ma devo dire di essere contenta di averlo letto. In più qualche giorno fa ho parlato con un amico alla ricerca un libro da regalare per Natale ad un ragazzo in prima superiore. Cercava un romanzo non più da ragazzini, ma che fosse adatto a qualcuno non ancora abituato a leggere romanzi per adulti di quattrocento pagine. Ecco, questo potrebbe essere il romanzo che fa al caso suo.
Quella che viene raccontata in L’amico ritrovato è sostanzialmente la storia di un’amicizia tra due sedicenni che vivono nella Germania del 1933. Uno è figlio di un medico ebreo, l’altro appartiene a una ricca famiglia aristocratica. Nella prima parte del romanzo quella tra Hans, il narratore della storia, e Konradin viene raccontata come un’amicizia come tante: vediamo il primo incontro tra i due, il loro bisogno reciproco, l’ammirazione e l’affetto che l’uno prova per l’altro.
Uno dei momenti che mi ha più affascinato di questa prima parte è quello in cui i due ragazzi parlano di Dio. Hans, turbato dalla morte dei suoi vicini a causa di un incendio, comincia a mettere in dubbio l’esistenza o la bontà di Dio in una modalità che mi ha ricordato da vicino Cronaca di un dolore di C. S. Lewis. Il ragazzo, infatti, dice:
“Fino a quel giorno avevo dato per scontata l’esistenza di un Dio onnipotente e benevolo, creatore dell’universo. […] Avevo sentito parlare di terremoti nei quali erano state inghiottite migliaia di persone, di fiumi di lava incandescenti che avevano travolto interi villaggi […]. Quei tre bambini, invece, li avevo conosciuti, li avevo visti con i miei occhi e questo cambiava radicalmente le cose. […] Non restavano che due alternative: o Dio non c’era o esisteva una divinità che era mostruosa nel caso fosse stata potente e inutile se non lo era”.
Konradin, invece, di fede protestante, si rifiuta di accettare la conclusione dell’amico, ma in fin dei conti non è in grado di proporgli un’altra soluzione che sia convincente. Così, l’uno resta nella sua condizione di dubbio e negazione, l’altro nella sua convinzione cieca e poco ragionata.
È interessante questo scambio di opinioni sull’esistenza o meno della divinità perché, pur non essendo mai più tirata in causa all’interno del romanzo, essa fa da sottofondo a tutta la seconda parte della storia, in cui entra in campo il nazismo. All’inizio esso è un’ombra, quasi impercettibile nella vita dei due ragazzi. Poi, man mano che le pagine scorrono, questo fantasma si fa sempre più reale, sia nella vita dell’ebreo Hans, sia in quella di Konradin, prima sostanzialmente indifferente al nazismo e poi suo sostenitore, ancora inconsapevole della vera natura dell’ideologia. Il romanzo ci descrive un Konradin sedicenne, sostenitore del nazismo più per influsso di chi lo circonda che per propria convinzione. Non è presentato come colpevole di essere una persona cattiva; forse la sua colpa è essere debole, non malvagio, indottrinato, non mostruoso.
Questo collegamento tra la riflessione sulla divinità e racconto degli anni del nazismo viene fatto anche da Francesco Guccini, che in Dio è morto (1965), brano scritto da lui ma inciso in contemporanea da Caterina Caselli e dai Nomadi nel 1967, ci dice:
E un dio che è morto
Nei campi di sterminio
Dio è morto
Coi miti della razza
Dio è morto
Con gli odi di partito
Dio è morto
Dio è morto
Se alla fine della canzone, però, Guccini si apre a una speranza, alla possibilità della resurrezione di Dio e della redenzione degli uomini, Hans, ormai presentatoci come adulto nelle ultime pagine, di questa speranza non parla, perché di Dio non parla più dopo i discorsi fatti in gioventù con l’amico di un tempo.
Hans, tuttavia, ci racconta alla fine del romanzo di un altro tipo di redenzione: la redenzione del singolo individuo. Di più non posso dire per non rovinare il finale a chi voglia leggere il libro, ma un indizio lo posso dare: è un finale dolce-amaro che lascia un peso sullo stomaco ma anche un accenno di sorriso agli angoli della bocca.
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