A tu per tu con il frontman della band napoletana, in uscita con il nuovo singolo intitolato “Mal di gola“
Tempo di nuova musica per i The Kolors, tra le band più innovative ed internazionali del panorama musicale italiano, in uscita con il singolo “Mal di gola”, disponibile a partire da venerdì 29 gennaio per Island Records. Un racconto filo-romantico di una storia contemporanea, scritto da Stash insieme a Davide Simonetta, Simone Cremonini e Alessandro Raina, il tutto rivestito musicalmente da un abito rigorosamente analogico, frutto dell’interessante produzione curata dallo stesso frontman insieme ai Daddy’s Groove.
Ciao Stash, benvenuto. Partiamo da “Mal di gola”, ci racconti com’è nato?
«”Mal di gola” nasce da una demo realizzata la scorsa estate, completamente diversa dal risultato finale, all’inizio era quasi un piano e voce. Ho inviato il provino a Jacopo Pesce, che considero un po’ il capitano di questo nostro progetto. A lui è piaciuto, così siamo andati avanti, scrivendo parallelamente anche altre cose. Ogni volta che ritornavo su questo pezzo, però, capivo che c’era qualcosa in più, che mi rappresentava parecchio dal punto di vista armonico, melodico, ma anche di scrittura del testo, perchè racconta un po’ il contrario della classica storia perfetta che vediamo nelle varie serie tv».
Com’è stato metterci su le mani e lavorarci anche dal punto di vista della produzione?
«Una goduria, perchè abbiamo suonato tutto in maniera analogica, compresi i vari synth. Dal punto di vista della produzione artistica, per me questo pezzo si può riassumere con una scena: mio papà che va a cercare e che riesce a comprarmi una tastiera introvabile, la DX7 S con delle cartridges, un sintetizzatore che racchiude tutti i suoni degli anni ’80, decade a cui noi attingiamo molto. Lavorare a questo canzone è stata veramente una goduria personale estrema, tutti i suoni che sentirete in “Mal di gola” hanno una sorgente analogica».
La cosa che trovo interessante nei vostri singoli è che, sì, c’è un filo conduttore che li lega, ma ogni episodio ha un proprio mood, una caratteristica in più, una peculiarità. In “Non è vero” c’era il richiamo a Napoli Centrale, in questo nuovo pezzo c’è l’innesto del sax: l’intento è quello di creare qualcosa di evolutivo oltre che di continuativo?
«Esattamente così, abbiamo iniziato questo percorso di citazioni e di nostalgia, cercando di trovare una nostra strada, divertendoci, spaziando in diversi mood, dal funk al soul, passando al tono più “cazzimmoso” del precedente singolo che hai appena citato, con quelle linee di basso piuttosto importanti. L’obiettivo finale è quello di cercare di definire bene i confini della nostra identità artistica, tracciandoli e disegnandoli al meglio, citando e stimolando la nostalgia degli anni ’80, pur rimanendo una realtà contemporanea. Questa è la nostra sfida: risultare riconoscibili in qualsiasi viaggio decideremo di intraprendere in futuro».
Probabilmente la musica ha fatto talmente il giro che, forse, gli spunti più innovativi si possono prendere in prestito dal passato. Una strada che, in tempi più recenti, è stata battuta anche da altri artisti…
«Forse la nostra fortuna, in un momento di bombardamento musicale come questo, è stata quella di aver cominciato prima, di aver intrapreso questo percorso in tempi non sospetti. Questo ci da una credibilità diversa, proprio perchè non lo stiamo facendo per moda. C’è chi lo fa (ride, ndr), ma penso che sia chiaro un po’ a tutti».
Oserei dire che da sempre siete legati all’immaginario musicale rappresentato dagli anni ’80. Per quanto concerne la fruizione, però, la situazione in questi decenni è completamente cambiata, tant’è che il concetto di album sembra essere quasi superato, voi stessi negli ultimi tre anni avete pubblicato soltanto singoli. Più che una scelta, la consideri una conseguenza naturale dell’evolversi del mercato?
«E’ una scelta nostra, dell’intera squadra di lavoro, generata da una conseguenza dettata dal cambiamento del mercato a livello mondiale, dal nuovo modo di ascoltare la musica. Sostanzialmente abbiamo già pronto un album, forse in un altro contesto storico sarebbe già uscito. In passato c’erano tanti altri fattori da considerare, ma le cose sono cambiate. Se vai a spiegare a un giovane utente di Spotify quello che accadeva una trentina di anni fa, ovvero la tendenza di dare alle stampe un album anche solo per tirarne fuori un solo singolo, penso che lui ti prenderà per pazzo. Sai, lavorando con i Daddy’s Groove, nel loro team ci sono anche le nuove leve, mi viene in mente Simone Capurro che ha 19 anni: lui è nato in un sistema di produzione con i laptop, non sa dove mettere mani su un mixer analogico. Abbiamo trovato difficoltà a fargli comprendere perchè per noi era meglio collegare i cavi alla tastiera, piuttosto che ottenere lo stesso suono con un semplice click».
Beh, in effetti parliamo di mentalità completamente diverse…
«Sì, in quell’occasione ho toccato con mano quanto sia veloce l’evoluzione tecnologica. Spotify non ha solo stravolto la modalità di fruizione della musica, ma anche il modo di produrla. Alla fine della fiera, però, devo dire che ne sono contento, anche se mi ritengo un nostalgico, mi soddisfa questa piega, questa esponenziale crescita della tecnologia. Se ci fai caso, è sempre più una ricerca dell’organico, perchè dopo l’esplosione del digitale e di un mondo un po’ artefatto, si torna sempre al suono vero, primordiale. Chi rimane e chi produce questo genere di musica sono coloro i quali conoscono la materia… cioè, Scott Storch conosce la tastiera su cui sta suonando, non prende un loop, bensì lo crea. Poi, magari, un ragazzino della provincia di Chieti se lo scarica e ci fa un pezzo sopra, scrive una roba fighissima che diventa virale su Spotify Italia. Ecco, questa sì che è vera condivisione».
Però, è anche vero che questo sistema può facilitare la nascita di etichette, ad esempio anche attraverso le varie playlist…
«No, aspetta, le playlist racchiudono dei generi, non etichettano l’arte. Racchiudono degli stati d’animo, anche da questo punto di vista è cambiato il modo di concepire la musica, perchè adesso puoi andare a cercare una playlist che si addice ad una giornata di pioggia e scoprire al suo interno un pezzo dei Cure che non conoscevi, per poi innamorartene perdutamente. Questo delle playlist è sicuramente un argomento molto infuocato, soprattutto in Italia, ma personalmente non lo associo alle etichette, piuttosto ai generi che ci sono sempre stati».
Per concludere, arrivando all’attualità, mi è capitato di vedervi dal vivo un po’ di volte e devo dire che il vostro habitat naturale è il palco. In un momento generale di stop forzato, come state affrontando tutti questi mesi di astinenza dai live?
«Cerchiamo di suonare il più possibile in studio. Sicuramente lo viviamo come un periodo di preparazione, di meditazione forzata che, comunque, un po’ per tutti, esorta a riflettere su quello che ciascuno di noi vuole ottenere realmente nella vita. Il palco, come dici tu, è sicuramente l’habitat naturale dei Kolors, stiamo utilizzando questo lungo periodo per suonare ancora meglio. Questa è un po’ autocelebrativa, però lasciala (ride, ndr)».
© foto di Alessandro Treves
Nico Donvito
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