Raccontiamo l’attualità con una canzone
Mi guardo attorno ed è tutto impazzito. Ci stiamo abituando a fare delle cose che appena un anno fa avremmo creduto impensabili, però le facciamo, ubbidendo e dimenticando una vecchia e ormai remota idea di mondo. Un mondo dove la notte era vita e non reclusione in casa; un mondo dove non dovevamo nasconderci dietro una mascherina, reprimendo in essa sorrisi e rimpianti, baci e promesse; un mondo dove si poteva affogare la propria tristezza nel bicchiere di una cupa e tarda ora al pub, o abbracciare uno sconosciuto perché si era un po’ brilli; un mondo dove la libertà era tangibile, là fuori, sempre e comunque, e non solo a certi orari del giorno e a certi colori impartiti dal governo.
Sta diventando tutta una pazzia, senza che se ne veda un fine o, quantomeno, una fine. In ogni caso, noi umani obbediamo e dimentichiamo, pronti a sopportare tutto e a supportarci in ogni modo. Non so bene da dove derivi questa nostra forza, ma è una cosa che facciamo da sempre: sprofondare, nella certezza di star sempre più precipitando, ma con una dignità e una tenacia che permette di trasformare i più grandiosi gesti eroici in semplice e quasi banale abitudine. Del resto, i nostri nonni sono nati durante la guerra, in mezzo a bombardamenti e ad un mondo che cadeva a rotoli: quanto mai potrà danneggiarci un virus che neanche vediamo?
Però, va detto, qualcosa si sta rompendo. Da giovane, vivo (e viviamo) in un limbo di attesa, senza poter incidere e sentendoci anche d’intralcio allo scorrere di questa battaglia. Le facce sugli schermi stanno diventando sempre più mostruose, sempre più alienanti, sempre meno vicine. Rimangono poche cose alle quali aggrapparci. Una di queste, è l’amicizia.
Il primo step è il più immediato: il bisogno di vedersi. Vedere la faccia di una amico, vederne la sua storia, i suoi dolori e le sue sofferenze. Sapere che un corpo sia reale e non solo la somma complessiva dei suoi messaggi, delle chiamate al telefono e delle foto che posta sui social. Averlo lì, davanti a te, vivo e indifeso. Ritornare a scoprire che c’è un mondo che passa negli occhi di un amico, un mondo che spesso è anche il nostro. Vuoi che si parli della Lazio, di fidanzati, di gossip, dell’università. Chi ha amici che non vede da tempo, saprà.
Ma non è solo questo. Perché a quel punto le videochiamate non sarebbero così opprimenti come invece lo stanno diventando. C’è dell’altro. Una cosa più piccola, più sfumata, ma che senza di essa si perderebbe qualcosa di fondamentale, di autentico e di vivo. Provo a dirlo così: “veder scorrere lo stesso tempo.” Va beh, ora provo a spiegarlo.
C’è un sentimento, quando sei lì con un amico o un’amica, che pervade tutta l’atmosfera intorno. Non è solo la gioia di rivedersi o di raccontarsi. Il fiume che hai davanti è sempre lo stesso fiume, sia da soli che in compagnia, e la piazza della propria città quella è. Ma nel trovarsi insieme, in amicizia, c’è quest’utopia folle, sempre potente in noi giovani, nel credere che quel fiume, quella piazza, in quel preciso momento lì, siano solo nostri.
Per gli altri è invisibile, gli altri non lo sanno. L’amicizia crea questo assurdo slittamento. La vita che uno vive – confusa, sfumata, grigia, incerta – si intreccia con la vita dell’altro e in quel momento, i due amici vivono lo stesso tempo. La stessa incertezza, la stessa confusione. È una cosa piccola, ma in realtà grandiosa. Sapere che qualunque cosa possa accadere, qualsiasi coprifuoco possano mettere, qualsiasi variante possa variare, in ogni caso, il proprio tempo è destinato a intrecciarsi con il tempo del nostro amico. E il fiume così diventa il nostro fiume. La piazza, la nostra piazza. Il parco, il nostro parco. È un respiro di gioia, un profumo di libertà: come quella che racconta De Gregori nella sua canzone “Il signor Hood”.
Poi certo, in amicizia bisogna anche allontanarsi. Nonostante il tempo si intrecci, alla fine non risolve granché. I problemi rimangono quelli e le ansie sono ancora potenzialmente distruttive. Però, non so. L’idea che ci sia un posto, laddove i miei problemi non sono più solo i miei; laddove i miei fallimenti non sono più solo i miei fallimenti ma delle sconfitte e degli insegnamenti per tutti; laddove ci si riconosce a partire da una ferita, e ci si vuole bene scambiandoci il segreto della nostra tristezza – ne sanno poco le nostre famiglie, e niente il mondo – ecco, sapere che c’è un posto così che si chiama amicizia non è male.
Mi guardo attorno ed è tutto impazzito. Ripenso però ai miei amici, e noto con tenerezza che a tenerci uniti, in questo momento, è la certezza di stare combattendo una sotterranea guerra, di cui, tra l’altro, non ci stiamo capendo niente. Volendoci bene – e quanto – per la nostra inadeguatezza e per il nostro eroico tentativo di mandarlo in culo, il mondo, nonostante tutto.
Non è granché forse, rispetto a tutto il caos che stiamo vivendo: ma di sicuro è una di quelle tre o quattro cose che a me, in fin dei conti, tengono salva la vita.
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