Raccontiamo l’attualità con una canzone
Si aprono le tende, il sipario è pronto, la sala è gremita. Signore e signori, ecco a voi ritornato: il ristorante. Lo so, lo so. È da un po’ che sono aperti, ma sapete, io alle cose ci arrivo ma un po’ in ritardo, con il mio tempo, ecco. Erano anni ormai che non mi sedevo in una tavola rotonda per saziare i miei apparati digerenti. O per lo meno, non con dei camerieri che mi servissero. Ok, proviamo a spiegare.
Per prima cosa, non ero da solo ma con dei colleghi di lavoro. Eravamo tutti stanchi e maleodoranti, quindi non avevamo e non avevo molta voglia di mettermi a ricercare altra forma di stupore se non quella di ingurgitare al meglio e il più in fretta possibile il mio intestino così da sdraiarmi su un letto nell’immediato ritorno in albergo. Tralasciando questo, ci siamo imbeccati subito nella sfilata fiera e orgogliosa dei Green pass, momento che ricorda quello di quando eravamo a scuola da piccoli e la maestra ci controllava se avevamo fatto i compiti. Il segnale verde ci dice che siamo stati bravi e già ci sentiamo meglio interiormente, come cittadini, come essere umani, come persone giuste in un mondo spesso sbagliato. Si inizia a brillare di luce propria, come delle stelle appena nate nel firmamento.
No, ma dico, le avete viste le facce delle persone dopo che esibiscono il loro green pass? Non so se si nasconda un tocco di arroganza o di semplice orgoglio, ma sembra ci sia sempre la paura che qualcosa possa andare storto. Che i vaccini non siano quelli giusti, che sia scaduto qualche controllo. Una pungente ansia cresce nel lato esterno della bocca, ma appena la cameriera convalida il pass, ecco che il mondo riprende il suo colore. In altri posto la chiamano democrazia, ma noi italiani, si sa, a volte ci stupiamo con poco.
Una volta entrati nella sala, lo show. La mente riesuma vecchi ricordi inutili che ora sembrano tornare come l’odore di una spezia perduta, e allora riaffiorano taciti momenti di normalità che piano piano ti parlano: il bambino che piange a pochi metri da te, la faccia boriosa e stufata che fai appena ti siedi e ti accorgi di quanto rumore fanno i vicini, l’approccio iniziale con la sedia (appoggiato con i gomiti al tavolo o con tutta la schiena adagiata allo schienale? Non ridete, c’è gente che va in crisi per molto meno), e poi il guardarsi intorno. Ah, quanti mondi nel ristorante.
La coppia laggiù cosa mangia? Pizza e antipasto? Uhm, si lasceranno presto. E quei quattro vecchietti silenziosi? Amici di vecchia data o si sono incontrati per caso in un torneo di bocce? Non giungiamo a scelte affrettate, anche se quella zuppa che ha preso quella ragazza in fondo sembra squisita. Ma quell’uomo che mangia da solo che combina? E cosa sta guardando? Dio, quanto darei per scoprire cosa stia pensando. E poi, e poi, e poi…?
Mi giro un attimo e mi accorgo che tutti al mio tavolo mi stanno osservando, compresa una cameriera con la faccia gentile e celatamente impaziente. Ordino la mia zuppa e comincio a darmi un attimo di contegno.
Da qui in poi inizia la vera serata: nelle chiacchiere. Si può tendere a parlare della cameriera e dei suoi modi di fare sinuosi, oppure parlare di lavoro per poi cadere presto in qualche commento sulla cameriera. C’è chi si azzarda a parlare di cibo o di politica, ma sono argomenti destinati a cadere presto. E poi, e poi, e poi… e poi cominciano i silenzi.
Ecco come la normalità fa i conti con la sua improvvisa assenza. Con i silenzi. Ognuno pensa al suo mondo, a questi due anni di limbo, di spazio sospeso in un surreale modo di stare a galla. Riemergono pensieri bui che opportunamente ognuno tiene per sé. Drammi amorose, valori sgretolati, scelte difficili lungo il sentiero. Arduo restare anonimi in quei momenti. La normalità ti avvolge e ti spinge contro tutto questo tempo che non hai potuta vivere. Che ci faccio qui, sembra essere la prima domanda. Cosa mi manca, dove sto andando, dove sono stato, e via così.
Poi certo, ognuno la vive a suo modo e nel mentre qualche chiacchiera superficiale cancella per un attimo la lavagna impregnata di pensieri, ma se si potesse vedere da fuori, quella scena, quel gruppo, tutti noi, sembreremmo proprio dei poveri christi. Persone solitarie in mezzo alla gente. Persone che cercano la gente quando si sentono soli. Eterni sconsolati, tenere anime perse.
Il vino, o diciamo meglio l’alcool, aiuta a smembrare un po’ questa ostrica. Ciò che ne esce, oltre a dei rutti se non si è proprio dei lord, spesso è una flebile luce di speranza. Non che risolva granché, ma da a quella normalità perduta quel colore che sa di casa, che sa di compagnia.
Poveri Cristi, aggrappati e terrorizzati nel condividere ad estranei la domanda più semplice e più difficile: Come stai? Titolo della canzone di oggi, di Brunori Sas.
Come stai?
È la frase d’esordio nel mondo che ho intorno
Tutto bene, ho una casa
E sto lavorando ogni giorno
Che cosa vuoi che dica? Di cosa vuoi che parli?
E’ il mutuo il pensiero peggiore del mondo che ho intorno
Tasso fisso, con l’euribor c’è chi sta impazzendo da un anno
Che cosa vuoi che scriva?
Di cosa vuoi che canti?
Finito di mangiare puoi stare meglio o puoi stare peggio, dipende dal cibo e soprattutto dalla compagnia. C’è chi si fuma una sigaretta, chi pensa alla serata passata, chi semplicemente è ancora immerso nel suo mondo. A me capita spesso di uscire dal ristorante e di alzare la testa per cercare la luna, piena come lo sono io.
Solitario come lo sono io.
Chissà come fa a brillare così, lassù in alta da sola.
Non saprei, deve avere un green pass davvero speciale.
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