La nuova rivoluzione musicale condanna l’industria discografica
E’ notizia recente l’intenzione di Spotify di avviare una nuova rivoluzione discografica per quel che riguarda il mercato musicale globale. La nota piattaforma di streaming ha, infatti, comunicato, per mezzo del proprio CEO Daniel Ek, la volontà di arrivare a permettere ai proprio utenti di caricare liberamente la propria musica sulla piattaforma. Non una novità assoluta, certo. D’altronde lo stesso YouTube ha subito questa procedura ma, in questo caso, la differenza è sostanziosa oltre che disastrosa per quanto riguarda le sorti del mercato discografico.
La novità verrà introdotta a partire dagli Stati Uniti d’America consentendo a chiunque di caricare sulla piattaforma i propri brani senza badare a qualità e, soprattutto, agli “obblighi” burocratici della discografia. In sostanza, d’ora in poi, si potrà immettersi sul mercato senza avere alle spalle un’etichetta, l’unica intermediaria rimasta attualmente tra artisti e mercato. L’abbattimento di questa barriera da un lato aiuterà, sicuramente, ad allargare la proposta ma, viceversa, creerà, irrimediabilmente, un abbassamento sostanziale della qualità musicale.
Pensare che chiunque possa definirsi un’artista è pura utopia. Ipotizzare che chiunque possa immettersi sul mercato senza alcun supporto promozionale e produttivo è un assurda ir-realtà. L’ingiustificato obiettivo di tutto ciò, però, sarebbe permettere una maggiore fruibilità del “prodotto musicale” andando così incontro ad un sistema industriale inesistente dato che, d’ora in poi, basterà anche il “fai da te” per essere sul mercato, per poter, per assurdo, guadagnare esattamente come chi fa l’artista per davvero con un vero e proprio “datore di lavoro” (l’etichetta discografica).
Ma se ora chiunque potrà avere accesso a Spotify caricando gratuitamente i propri lavori i veri danneggiati saranno soprattutto quei colossi industriali che della discografia hanno da sempre fatto il proprio mestiere. Con quale strategia potranno controbilanciare la potenza crescente di chi, come Spotify, punta palesemente ad aggirare il loro ruolo ed il loro potere? Se finora le piattaforme di streaming si sono “limitate” a corrispondere cifre irrisorie ad artisti, autori, produttori ed etichette rendendo la musica un servizio praticamente dovuto all’ascoltatore che si sente sempre più legittimato a non pagarla (perchè pagare 10€ al mese per oltre 20 milioni di brani non è una cifra minimamente sufficiente) d’ora in poi punteranno palesemente ad eliminare chi la musica l’ha sempre “protetta” e “fatta”: le etichette discografiche.
Ilario Luisetto
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