Albe: “Baita? Una finestra sul mio mondo” – INTERVISTA

Albe

A tu per tu con Albe, che si racconta in occasione dell’uscita del nuovo album “Baita”. La nostra intervista al giovane cantautore bresciano

Una baita come rifugio emotivo, più che un semplice luogo fisico. Con il suo album “Baita”, pubblicato venerdì 5 dicembre per Triggger / WEA e distribuito da ADA Music Italy, Albe mette finalmente a fuoco la propria identità musicale dopo averne anticipato il percorso con i singoli “Cercapersone”, “Con te non ci torno più” e “Alla fine sono io“. Un disco che nasce come naturale punto di approdo di un viaggio iniziato quasi in sordina, tra sessioni in studio, scrittura a cuore aperto e una domanda di fondo: “cosa resta davvero, quando tutto il resto si muove e cambia?”.

Baita”, che in dialetto bresciano significa “casa”, è il racconto di ciò che resta attaccato alla pelle: le amicizie che ti salvano, gli amori imperfetti ma sinceri, le radici di provincia che continuano a tirarti fuori dalla confusione, ricordandoti chi sei. Dentro queste canzoni c’è la quotidianità di albe, fatta di strade di paese, piccoli riti condivisi, famiglie non tradizionali ma solidissime, errori che diventano lezioni e mancanze che si trasformano in crescita. È un album che non si presenta come un inizio né come un traguardo, piuttosto come un pranzo della domenica: un momento sospeso in cui ritrovarsi insieme a chi ti vuole bene, nel posto in cui ti senti davvero al sicuro.

Sul piano sonoro, questo senso di casa passa attraverso un lavoro compatto e organico, costruito con i producer Francesco Savini Alessandro Gemelli a partire da strumenti reali, registrazioni quasi in presa diretta e un’estetica dal forte sapore live, pensata per restituire la stessa verità che albe porta sul palco. È qui, tra provincia e crescita personale, analogico e contemporaneità, che prende forma la sua poetica: diretta, spontanea, senza sovrastrutture, capace di trasformare il personale in qualcosa di condiviso. Di tutto questo e di come “Baita” abbia aperto “un mondo gigante” per il suo futuro, abbiamo parlato con Albe in questa intervista.

Albe presenta il disco “Baita”, l’intervista

“Baita” è il titolo del tuo nuovo progetto discografico. Come si è svolto il processo creativo, il viaggio di questo disco? Da dove sei partito e a quali conclusioni sei arrivato?

«È un viaggio, è un album, quindi un viaggio che non ha avuto un momento in cui mi sono messo a comprare dei biglietti per questo viaggio. Mi sono ritrovato in questo viaggio. Non avevo ancora fuori un album, ci siamo guardati negli occhi col team e abbiamo detto: raga, magari è giunto il momento di chiudere le canzoni che abbiamo, vedere di cosa parlano e trarne un album. C’erano queste canzoni, non erano quaranta, erano quelle, poco più o poco meno, e le abbiamo unite. Abbiamo visto che parlavano di questa cosa, perché in quel momento mi ritrovavo in quelle cose, e l’abbiamo racchiusa in un album che anche il titolo rappresenta perfettamente».

“Baita” non dà l’idea di essere né un punto di partenza né un punto di arrivo. Quali riflessioni e quali stati d’animo hanno ispirato le tracce?

«È tutto partito quando non riuscivo a scrivere nulla, perché magari vuoi scrivere la canzone con la C maiuscola e invece sei lì che non riesci a tirare fuori nulla. A un certo punto mi sono fermato e ho detto: sai cosa c’è? Parliamo di quelle cose, anche se semplici, anche se apparentemente piccole, parliamo delle cose che mi appartengono veramente. In quel momento, sentivo molto l’attaccamento alla provincia, dato che abito a Milano: il mio paesino, i miei amici, la mia fidanzata, la mia famiglia che non vedo più tutti i giorni. Ho voluto parlare di queste cose qui».

A livello musicale, che tipo di lavoro c’è stato in studio dietro la ricerca del sound insieme ai producer Francesco Savini e Alessandro Gemelli?

«Le canzoni sono tutte nate insieme a loro, a parte una che ho fatto io anche come composizione. È stato un lavoro un po’ da Frankenstein di canzoni inglesi, di generi inglesi. Si passa dal folk ad altro, però il tutto rimane omogeneo perché abbiamo registrato gli strumenti quasi in presa diretta: chitarra e basso insieme, batteria live. Le chitarre sono registrate con gli amplificatori. Insomma, c’è tanto lavoro analogico dietro. Tutto questo ha un sapore live, perché volevamo essere coerenti con quello che è il mio sogno musicale: il live è sempre il fine ultimo».

Questo è un disco molto autentico. Pensi che questa autenticità possa favorire l’immedesimazione di chi ascolta?

«Esatto. Non per forza uno deve immedesimarsi in quello che io ho scritto. È più un tramutare quello che ascolto in quello che vivo. Non è un disco solo per chi si è trasferito in un’altra città: lo stato d’animo è genuino, è vero. Quando la cosa è vera e spontanea, secondo me è giusta. Poi sta alla gente capire in che momento della propria vita mettere quella canzone o quel disco».

Anche tu, da ascoltatore, hai mai percepito che un artista stesse parlando di te? Un disco o una canzone che ti ha “salvato”?

«Fulminacci. Quando ho ascoltato la canzone “Filippo Leroy”, mi ci sono ritrovato molto, per il fatto che parlava di un alter ego. Anche io a volte penso di averne uno, perché non credo abbastanza in me. Poi non sempre mi ritrovo perfettamente nelle parole: è più un capire quello che dice e capire perché mi piace. Per esempio, nell’ultimo album di Cremonini, con “Alaska Baby”: io non sono venuto su una Dodge Durango, ma quello che dice e quello che mi trasmette è una sensazione che evidentemente ho già provato. È tutta una questione di punti di vista, ascoltatore e cantante».

Uno dei pezzi che colpisce è “Con te non ci torno più”. Come si fa a trasformare un dolore in crescita? Tu l’hai capito?

«L’ho capito abbassando l’ego. Abbassando l’ego e capendo il prossimo, mettendomi nei panni dell’altro, ho capito molto su errori e momenti difficili. Con te non ci torno più rappresenta perfettamente questo momento in cui capisco questa cosa. È una delle canzoni dell’album che ho scritto in un modo che per me è impattante. L’ascolto ancora oggi e mi piace ancora tanto».

Come è cambiato il tuo modo di raccontarti rispetto agli esordi? Quali skill pensi di aver acquisito con questo album?

«Bella domanda. Ci pensavo l’altro giorno con la mia ragazza: qual è il mio punto forte? Secondo me il live. Live posso intrattenere già in un modo buono, discreto. Mi piacerebbe migliorare la credibilità della mia penna, delle melodie, delle musiche e delle, parole. Sto puntando molto su questo».

“Noi siamo quelli” chiude il disco, una dedica ai tuoi amici più stretti. È come se il viaggio iniziato in solitaria si concludesse in compagnia.

«Sì, non ci avevo mai pensato. Noi siamo quelli è la chiusa. Ci sono anche dei miei amici che cantano in modo un po’ stonato e fuori tempo, ma è quello il bello. Dentro c’è la mia frase preferita del disco: “Assì provarci a non eroginarsi la festa”. È una frase che rappresenta perfettamente tutto il disco. Prendere il palo, nel gioco della tedesca, era prendere punti, capire perché e migliorarsi. È così in amore, in amicizia, nella vita: se non si sbaglia, non capisci».

Porterai “Baita” nelle case della gente con quattro house concerts. Cosa significa per te questo contatto diretto? Cosa ti aspetti?

«L’abbiamo già provato a Milano un anno fa ed era uscita da Dio. Ora andiamo a Milano, Roma, Bologna e Napoli. Mi aspetto di trovare le persone più care al progetto, quelle che ci credono di più, che magari hanno preso anche il vinile. È una cosa molto semplice: ci vediamo, parliamo, beviamo, dormiamo insieme in questa casa, in questi salotti. Con la chitarra canto le canzoni, le commentiamo. È una cosa intima, per chi vuole proprio entrare nella baita».

Per concludere, quali elementi ti rendono più orgoglioso di un disco come “Baita”?

«Sono contento di questo disco perché mi ha sbloccato per il futuro. Sono le perfette fondamenta che volevo. Non è una cosa che tra vent’anni potrò dire: “Eh, però l’avrei fatto così”. Baita è perfettamente quello che sono in questi primi anni di carriera. Mi ha fatto scoprire un sacco di cose nuove, nuovi generi, nuove influenze. Mi ha aperto un mondo gigante. Non è più una baita: è un mondo».

Scritto da Nico Donvito
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