Alberto Cipolla: “Non c’è mai un solo punto di vista” – INTERVISTA

A tu per tu con il musicista Alberto Cipolla, per parlare del singolo “A Dream of Summer” e del suo percorso musicale. Ecco la nostra intervista
Alberto Cipolla, giovane e prolifico musicista, compositore e produttore apprezzato per uno stile che va dalla classica all’elettronica, presenta il nuovo singolo “A Dream Of Summer”, disponibile su tutte le piattaforme digitali (Metatron / INRI Classic).
Il brano è una nuova anticipazione del prossimo lavoro in studio di Alberto, così come “Takk” e “Love Theme“, usciti in precedenza. Approfondiamo la sua conoscenza.
Alberto Cipolla presenta “A Dream of Summer”, l’intervista
“A Dream of Summer” è il tuo nuovo singolo. Cosa rappresenta per te questa canzone?
«”A Dream of Summer”, per me, è arrivata proprio nel momento in cui mi era necessario arrivasse. Stavo lavorando ad alcuni brani per il disco di prossima uscita, venivo da un periodo di lavoro piuttosto intenso (bello, ma impegnativo) e dalla scrittura e ultimazione di alcuni pezzi abbastanza cupi e complicati sia a livello musicale che di significato. Avevo evidentemente bisogno di tornare su qualcosa di più leggero e semplice. Anche a livello sonoro sentivo il bisogno di tornare un po’ a suoni e strumenti che stavo progressivamente lasciando in disparte e avevo timore di ingabbiarmi da solo in un cliché pianoforte-archi-elettronica che ormai sembra definire la cosiddetta “neoclassica”. Quando è arrivata l’idea per A Dream of Summer è stata una boccata d’aria fresca, tanto che infatti ho iniziato e finito la prima stesura di demo nel giro di un paio di giorni, lasciando solo pochi ritocchi da rifinire».
Hai raccontato che il brano nasce dall’unione di due idee rimaste nel cassetto per un po’. Come hai capito che potevano coesistere?
«L’idea è venuta, appunto, riaprendo quei progetti quando stavo cercando un po’ di diversità e di “sfogo” rispetto alle cose su cui mi stavo fossilizzando. Avevo da tempo in mente un pattern di chitarra e un giro di accordi che arrivavano da un sogno in cui cantavo una canzone (che poi cercai su google in lungo e in largo capendo che non esisteva) e c’era questa versione riarrangiata di un brano di un amico cantautore torinese che feci più di dieci anni fa, per divertimento, ma di cui son sempre stato molto contento e mi è sempre spiaciuto lasciarla lì come divertissement. Nel cercare di dare una forma più compiuta alla “canzone del sogno”, di trovare una strofa che potesse attaccarsi a quel ritornello che mi sembrava efficace, mi è tornato in mente il mio vecchio esperimento e il fatto che a livello di mood e parti musicali potessero mescolarsi bene (e potessero finalmente entrambi prendere vita dopo anni chiusi nel cassetto). Così, togliendo tutti i riferimenti al brano altrui da cui ero partito, ho rifatto la produzione da zero mettendo insieme le due cose e credo non potessero meritarsi fine migliore. Meglio che quando erano separate».
Sei un musicista che spazia dalla classica all’elettronica, con incursioni nel pop e nel jazz. Come riesci a bilanciare questi generi nella tua musica?
«Non la vivo come una cosa che necessita assolutamente di essere bilanciata. O meglio, al netto del fatto che ho degli ascolti relativamente ampli ho capito qual è il linguaggio in cui mi sento più a casa e riesco ad esprimermi e quali sono, invece, le cose che mi piace ascoltare o con cui mi diverto a “cazzeggiare” ma che avrebbero poco senso inserite prepotentemente nella mia musica e con cui non sarei credibile. Si tratta forse di saper dosare. Di base, come dici tu, classica/minimalista, elettronica e (ci aggiungo io) alcuni elementi di indie rock/indie folk è dove mi sento più nel mio. Poi la mia scrittura, a livello di struttura della canzone, spesso è pop, altre volte un po’ più libera, ma la cosa è trovare un punto d’incontro di queste diverse direzioni contaminandole con altre cose senza perdere la bussola. Anni fa, per un lavoro teatrale, ho passato mesi ad ascoltare e studiare cori femminili bulgari e armonia folk bulgara e Arvo Pärt: se domani pubblicassi un pezzo corale in stile bulgaro sarebbe strano (fuori dall’ambito teatrale), nel prossimo disco c’è un brano che è stato scritto volutamente partendo da quel tipo di ispirazione ma poi è stato contaminato da elettronica, piano, canto e quant’altro: forse lo saprò solo io che è partito da lì, ma comunque la contaminazione rimane».
Sanremo è ormai un appuntamento ricorrente per te, quest’anno hai diretto l’orchestra per Jovanotti e Mahmood. Che valore ha per te il Palco dell’Ariston?
«Beh… Sanremo è, piaccia o non piaccia, l’appuntamento musicale più importante e influente in Italia. Lo è stato, per un periodo lo è stato meno in termini di ascolti, adesso direi che è tornato ad essere l’evento musicale nazionalpopolare per antonomasia, quindi il peso e l’onore di calcare quel palco c’è e si fa sentire. Ho la fortuna di poter dire che è un evento ricorrente (lo è stato, spero continuerà ad esserlo) e sicuramente posso dire che dopo il timore – sia nel senso di reverenza sia nel senso di “fifa” – del primo anno, adesso che conosco le persone dietro, le facce, i meccanismi, le routine e tutte le dinamiche, è sicuramente diventato più che altro divertimento e un piacere. Certo, comunque anche se fino ad appena prima di salire sul podio durante la diretta non posso dire di essere agitato o ansioso, nel momento in cui si spengono le luci e realizzi che quello che accadrà nei seguenti 3 minuti anche sotto la tua direzione resterà ad imperitura memoria nello storico della televisione italiana, e diventando eventualmente materia di commenti e analisi, un tot di responsabilità la fa sentire».
C’è un momento, tra le tue incursioni festivaliere, che ricordi con particolare piacere?
«Caspita, un momento singolo in particolare faccio fatica a dirtelo, onestamente. Posso dirti che in generale, parlando di intera settimana sanremese, forse quella che per ora mi sono goduto di più è stata quella del 2024. Il 2020 è stato l’esordio ma nella gara dei giovani e per un solo giorno di gara e poi via; il 2023 la prima effettiva in gara con i big per tutta la settimana ma erano dinamiche che mi erano ancora nuove, quest’anno l’esperienza con ospiti di grande calibro è stata bellissima ma diversa dall’essere in gara. Lo scorso anno invece ero in una condizione che già avevo visto l’anno precedente, non c’erano situazioni inedite da dover gestire e quindi ho avuto modo di godermela di più, con divertimento e sapendo come gestire le diverse situazioni».
Se dovessi scegliere un artista, di qualsiasi epoca o genere, con cui collaborare, chi sarebbe e perché?
«Questa è una domanda a cui probabilmente cambierei risposta ogni giorno in base a cosa sto ascoltando in quel determinato periodo! Potrei dirti che riporterei in vita qualche grande Maestro classico, potrei farti nomi di grandi autori contemporanei affini al mio immaginario ma vado totalmente da un’altra parte e oggi ti dico Chappell Roan».
Per concludere, qual è la lezione più importante che senti di aver appreso finora dalla musica?
«Che non esiste mai un solo modo di chiamare qualcosa, non c’è mai un solo punto di vista che è giusto, ma che la stessa cosa, lo stesso fenomeno, puoi guardarlo da due angolazioni diverse e chiamarlo in modi diversi e comunque saranno corrette tutte e due le idee. Basta solo decidere di capire in che modo farle parlare e possono capirsi».