Alessandro Gaetano: “Rino costruiva i suoi brani per lasciare un segno” – INTERVISTA
A tu per tu con Alessandro Gaetano, nipote di Rino Gaetano, per parlare della riedizione dell’album “E io ci sto”, fuori per Sony Music Italy
A quarantacinque anni dalla sua pubblicazione, “E io ci sto” torna a nuova vita in una riedizione speciale targata Sony Music Italy, con le tracce originali rimasterizzate a 192kHz/24bit e arricchita dalla bonus track inedita “Un film a colori (Jet Set)”. Un ritorno importante per l’ultimo album di inediti di Rino Gaetano, ritratto lucidissimo di un’Italia sospesa tra sogno e disincanto, satira feroce del mondo dello spettacolo e critica al conformismo, che oggi suona più attuale che mai.
In occasione di questa uscita, abbiamo incontrato Alessandro Gaetano, nipote del cantautore, che insieme alla madre Anna custodisce e porta avanti l’eredità artistica dello zio, per parlare del progetto e, soprattutto, di cosa significhi oggi tenere viva la lezione umana e artistica di Rino Gaetano.
Intervista ad Alessandro Gaetano
È impressionante constatare quanto sia meravigliosamente attuale la musica di tuo zio, sia per appeal musicale che per visione testuale. Quali caratteristiche secondo te lo rendono nello specifico “E io ci sto” un disco immortale?
«È un disco che innanzitutto, rispetto agli altri, è molto diretto. Perché Rino è stato sempre etichettato come “non sense”, invece con questo LP c’è un senso di rivalza, un “adesso vi dico le cose come stanno”, e questo lo rende molto molto attuale».
Se non è cambiato lo spirito, è vero che la tecnologia quella sì non è più quella di 45 anni fa. Come avete lavorato alla rimasterizzazione dell’album senza intaccare lo spirito originale?
«Questo lo sa meglio Sony. Posso dirti che il brano inedito, “Un film a colori (Jet Set)”, è stato ritrovato proprio così: aprendo le tracce ci si è accorti che c’era una traccia audio vocale in più. Da lì è arrivato l’inedito. Hanno lavorato sulle piste originali, come si faceva una volta: è stato un lavoro di quel tipo».
Se dovessi far ascoltare questo album a un ragazzo di vent’anni che non conosce le opere di Rino, da dove lo faresti partire? Seguiresti l’ordine della tracklist o cominceresti con un altro biglietto da visita?
«Inizierei dal mio brano preferito: “Ti ti ti ti”. Parte in modo molto poetico, sembra quasi che ti stia raccontando una favola, “a te che sogni una stella e un veliero”, e poi nella seconda parte è molto schietto e diretto. Ha una bellezza particolare proprio per questo contrasto. È un modo diretto di parlare con chi ascolta. È proprio quella la sua forza: è uno dei pezzi più belli».
Per accompagnare questa uscita è stata realizzata l’opera video dedicata a “E io ci sto”, firmata dal regista Nicolò Bassetto. Il progetto nasce da un manoscritto ritrovato, uno script in cui Rino immaginava il videoclip del brano. Com’è stato ritrovare quel testo?
«Mentre stavamo allestendo la mostra di Rino, circa tre anni fa, abbiamo trovato questo manoscritto e lo abbiamo reso pubblico. C’era il racconto di come Rino aveva immaginato il video: partiva da un tramonto a Capri. Da lì è nata tutta l’ispirazione di Nicolò per creare questo video fantastico».
Grazie al videoclip, alla bravura del giovane attore Giovanni Maini e anche grazie al tuo cameo, “E io ci sto” continua a parlare con forza al presente. Perché secondo te questa canzone è ancora così attuale?
«È attuale perché, come Rino disse a Baudo quando la presentò, il brano parla del desiderio di cambiare l’Italia in modo positivo. Diceva: “Io a questo proposito ci sto”. È questo il senso: voler cambiare le cose in meglio».
Una cifra di Rino è sempre stata quella di lasciare libera interpretazione all’interlocutore. Hai sicuramente sentito interpretazioni diverse nel tempo di persone che leggevano diversamente i suoi pezzi. Pensi anche tu che questa fosse una delle sue grandi forze?
«Assolutamente sì. Rino costruiva i suoi brani proprio per lasciare un segno, quasi un pugno nello stomaco che ti rimane. Non è semplice restare impressi. Un amico di Rino diceva che la sua forza era lasciare un “motivetto”, una parte piccolina che diventava un jingle mentale. Da lì ti ricordavi il brano. Non succede con tutti, ed è un suo tratto distintivo».
A proposito di questo: recentemente abbiamo parlato della leggenda metropolitana secondo cui Rino disprezzasse “Gianna”, quando invece avrebbe semplicemente voluto portare un brano più “d’impatto” come “Nuntereggae più”. Era un po’ la sua cifra quella di saper stravolgere tutto in suo favore, no?
«Sì. Lui non disprezzava la canzone: diceva solo che somigliava un po’ a “Berta filava”, perché gli accordi, anche se girati, erano simili. Ma voleva andare a Sanremo con un terremoto, con un brano di rivalsa, non troppo legato a un jingle. Qualcosa con un tema sociale più forte. Infatti disse: “Ok, vado a Sanremo, ma ci vado a modo mio” e si presentò vestito quasi come Petrolini, col frac, le scarpe da ginnastica, il bastone, le medaglie, il cilindro… e i cioccolatini che distribuiva. Era tutto molto suo».
Arrivo a una curiosità su “A mano a mano”, uno dei casi più incredibili: uno dei pochi brani cantati da Rino non scritto da lui, senza nemmeno una versione in studio, registrato dal vivo e presente in un Q Disc, certificato anni dopo platino, nonché una delle canzoni più coverizzate in assoluto e sempre associate a tuo zio. Come te lo spieghi?
«Rino l’ha portata in quattro quarti: non era più lenta come la versione originale di Riccardo Cocciante con testo firmato da Marco Luberti. In quel modo l’ha resa, non dico nuova, ma ha creato un motivetto che rimane più impresso. Cantata così, un po’ più sfuggente, con le sue “eh, oh”… l’ha trasformata. “A mano a mano” è sua vocalmente. Il fatto assurdo è che sia diventata quella che è oggi: probabilmente anche grazie al film di Ozpetek (“Allacciate le cinture”, ndr), e poi negli ultimi dieci-quindici anni è stata riscoperta tantissimo. Sotto i palchi sento tanta gente dire che è la loro preferita».
Per concludere: Rino non era un artista catalogabile. Era, ed è, per tutti. Quale lezione ci ha lasciato attraverso la sua musica?
«Prima di tutto il non prendersi mai troppo sul serio, ma quando bisogna farlo… bisogna farlo bene. E poi l’umiltà. Rino, anche dopo il successo, frequentava gli stessi luoghi: questo me l’hanno detto gli amici, me l’ha detto mia madre. Molti artisti, dopo il successo, “svolazzano” e si perdono. Lui no. E questa è una cosa importantissima da ricordare».