giovedì 21 Novembre 2024

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Alessio Bernabei: “Ho imparato a scalare il mio Everest godendomi il viaggio” – INTERVISTA

L’artista si racconta in occasione dell’uscita di “Everest“, tappa di un percorso che riparte da una nuova consapevolezza

Peter Parker e Spider-Man, due facce della stessa medaglia, l’uno l’alterego dell’altro, personalità che si sostituiscono e che, in fondo, un po’ si completano. Sulla base di questa riflessione, Alessio Bernabei ha deciso di mostrarsi per quello che è, da uomo e da artista, con le proprie fragilità e le proprie montagne ancora da scalare. “Everest” è il titolo del suo nuovo singolo, l’inventario delle sue esperienze, positive o negative che siano, la bussola di un viaggio che riparte da una nuova consapevolezza.

Ciao Alessio, bentrovato. Partiamo da “Everest”, qualcosa in più di un semplice singolo o di un comune ritorno, questo penso si possa percepire sin dal primo ascolto. Com’è nato?

«”Everest” è nato lo scorso giugno, alle porte dell’estate, ma in quel momento dentro di me c’era ancora un po’ d’inverno, proprio per questo ha preso un tono decisamente vernino. E’ un brano molto particolare, perchè mi descrive appieno in questo momento. Ho sempre cercato di dare amore ad altre persone, pur non amando me stesso. Questo a volte mi si è ritorto contro, ma sbattendoci la testa e mettendoci la faccia l’ho capito. Così ho deciso di raccontarlo nero su bianco in questa canzone, sotto forma di una promessa, che può essere rivolta alle persone che mi hanno sempre seguito, ma anche ad un possibile amore, piuttosto che ad un membro della mia famiglia».

Una promessa che ti è capitato in passato di non riuscire a mantenere?

«Sì, parecchie volte, anche per colpa del tempo, o a causa di un rapporto svanito per motivi esterni. La promessa più grande, però, la voglio fare a me stesso e riguarda la musica. Dopo essermi preso i miei momenti di riflessione e di pausa, non voglio più stare fermo, non solo per le persone nuove che arriveranno, ma anche per tutte quelle che ci sono state nel corso del tempo».

Sarò il paracadute che non vuoi indossare” è la frase della canzone che meglio racchiude questo significato. Come la si trova la forza per maturare una simile presa di coscienza?

«Trovare la forza raggiungendo una piena consapevolezza è un lavoro che richiede molto tempo. In questi ultimi anni mi sono interessato all’argomento, ho letto un sacco di libri che parlano di crescita personale. Mi sono fatto tanti esami personali per conto mio, tante autoanalisi e ho maturato molto l’idea di come sono, anche se ancora non ho finito di conoscermi, perchè ritengo si tratti di uno studio talmente profondo al punto da poter richiedere una vita intera. Credo di essere più consapevole rispetto al passato perché non ho trascorso soltanto momenti belli, ma anche brutti e sono proprio quelli che ti insegnano qualcosa. La vita è come l’Everest, bisogna imparare a scalare la montagna godendosi il viaggio».

Un brano che hai composto da solo, testo e musica. Sbaglio o è il primo inedito di cui puoi rivendicare totalmente la paternità?

«Sì, in genere ho sempre avuto co-autori, almeno da quando ho cominciato il mio percorso solista. Se non calcoliamo “Anima gemella” e “Irresistibile”, i primissimi pezzi con la band, è sicuramente l’unico. Proprio per questo mi rappresenta al 100%. E’ nato da me, sia per quanto riguarda la parte musicale che quella testuale, l’ho portato in studio e l’ho costruito in bella copia».

Immagino che dal punto di vista affettivo rappresenti per te un figlio prediletto…

«Beh sì, è quasi un primogenito. Questo mi rende entusiasta e curioso di quello che verrà. Spero che le persone possano apprezzare tutta questa verità, perchè aprendomi ho voluto esprimere quello che sento per davvero».

Tutto questo si sente e si avverte anche guardando il bel videoclip che accompagna l’uscita del singolo. Cosa avete voluto trasmettere e sottolineare attraverso quelle immagini?

«Il video è nato in un contesto molto povero, da una mia idea, chiamando due tre persone, un paio di attori, il tutto con zero budget. Ho semplicemente contattato il mio amico e regista Marcello Maw e coinvolto anche Frank Meta, che si è occupato delle clip del backstage e delle foto sul set. Lo abbiamo girato alla cava di Manziana, una cava di zolfo bellissima con uno scenario lunare, al punto da sembrare quasi un altro pianeta. Il mio input iniziale era quello di rappresentare con queste immagini il viaggio dell’essere umano, che parte da una caverna e si sposta verso una meta. Un video semplice, ma allo stesso modo essenziale».

Nella nostra precedente chiacchierata mi avevi detto: “Alessio Bernabei triste non lo conosce nessuno, sento di voler esprimere totalmente me stesso mostrando anche le mie paure e le mie debolezze”. Con “Everest” pensi di essere riuscito a scrollarti di dosso l’immagine del ragazzo col ciuffo perennemente preso bene?

«In realtà il ragazzo col ciuffo perennemente preso bene non è mai esistito, era una specie di costume di Spider-Man. Andavo in scena, cercavo di risultare impeccabile e di far trapelare che andasse tutto bene. Ma ci stava, non ho mai finto di essere un altro, perchè una parte di me è fondamentalmente leggera e positiva. Il problema è che tendevo a nascondere il lato più da Peter Parker, quello che tornava a casa, si toglieva la maschera, si ritrovava da solo e stava male perchè non era capito, né da se stesso né dagli altri. Avevo come tutti i miei momenti di sconforto. Quindi, più che un cambiamento la considero una vera e propria evoluzione. Sono finalmente riuscito a mettere in luce la mia parte più oscura, tirando fuori l’Alessio più fragile e insicuro, quello che ho sempre voluto nascondere, non saprei neanche dirti per qualche motivo».

Semplicemente, forse, per una questione di età?

«Probabilmente, anzi sicuramente per una questione di età. Adesso ho ventotto anni, a settembre ne compio ventinove, sto quasi per raggiungere i trenta. Non mi sento più di nascondermi, anche perchè alle persone interessa quella parte che molte volte non fai vedere, la stessa che ti permette di conoscere e di apprezzare davvero chi hai davanti».

Anche perchè, nel frattempo, le persone che ti seguono sono cresciute con te e, proprio come te, hanno conosciuto gioie ma anche dolori…

«Esatto, molti ragazzi che mi seguivano prima erano adolescenti, andavano a scuola e adesso fanno l’università o lavorano, ad esempio mi hanno contattato fan che aspettano un bambino. Insomma, sono cresciuto io e sono cresciuti loro, adesso siamo pronti entrambi».

Alessio Bernabei Everest

A proposito di questa tua riflessività, che hai sempre avuto ma che finalmente si è palesata su larga scala, non posso non chiederti un pensiero su quello che sta accadendo a causa e in seguito alla pandemia. Come la stai affrontando questa condizione che, forse, nel suo protrarsi sta diventando quasi un’abitudine?

«Ci ho pensato spesso ultimamente, perchè c’è il rischio che questa situazione possa diventare cronica. Ho sempre pensato che questo periodo possa servirci e portarci a fare i conti con noi stessi, per guardarsi allo specchio e darsi anche quattro schiaffoni. Io personalmente l’ho fatto, imparando a familiarizzare con la mia parte solitaria. Spero che tutto questo possa finire presto, perchè il malumore continua da troppo tempo a farsi sentire. Uscire, svagarsi e abbracciarsi sono cose che ci mancano. L’augurio è anche per la mia categoria, che si possa tornare presto a suonare perchè per noi il palco è vita, se ce lo togliete “scapocciamo”, come si dire a Roma (sorride, ndr)».

Una volta mi hai detto che la musica ti ha insegnato ad accettare la vita nella sua imprevedibilità. Guardandoti indietro, ci sono state delle cose o delle situazioni che pensi di aver dato per scontato? 

«Ad istinto ti direi di no. La vita è davvero imprevedibile, me ne sono reso conto con l’esperienza, prendendo come tutti delle belle batoste, ma penso che questo rappresenti la parte interessante, non sapere cosa possa accaderci domani. Mi piace questo mood del “chissà cosa mi riserverà la prossima avventura”. L’unica certezza è che si cade e ci si rialza, il segreto sta nel prendere le cose con filosofia, perchè la vita è bella ed è giusto viverla col sorriso».

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.