Amalfitano: “La vita non va subita, ma vissuta” – INTERVISTA
A tu per tu con Amalfitano, che si racconta in occasione dell’uscita del nuovo disco “Sono morto x 15 giorni ma sono tornato perché l’amore è”. La nostra intervista
Un titolo che è già un racconto: “Sono morto x 15 giorni ma sono tornato perché l’amore è” è il nuovo progetto discografico di Gabriele Mencacci Amalfitano, in arte semplicemente Amalfitano, disponibile dal 24 ottobre. Dodici tracce che si muovono tra dolore e speranza, tra la fine delle cose e la voglia di ricominciare, con uno sguardo intimo e universale sulla vita, sull’amore e sul potere trasformativo della musica.
Con un sound fortemente influenzato dal folk e dalla tradizione americana, arrangiato con approccio artigianale e umano, il disco si presenta come un viaggio personale che diventa collettivo. E proprio partendo dal titolo, prende il via la nostra intervista a un artista che ha scelto di raccontarsi con coraggio e autenticità. Abbiamo incontrato Amalfitano per farci raccontare genesi, visioni e pensieri legati a questo nuovo lavoro, e per riflettere insieme sull’arte, sull’ascolto e sul valore salvifico delle emozioni.
Amalfitano racconta “Sono morto x 15 giorni ma sono tornato perché l’amore è”, l’intervista
Prima di entrare nel merito e nei dettagli di questo lavoro, partirei proprio da questo curioso titolo: come è nato?
«Mi piace partire raccontando che questo titolo è nato da una scritta che ho visto su un muro, non fatta con una bomboletta, ma incisa proprio nel cemento. L’ultima lettera, la “E”, era segnata in un modo che non capivo se fosse un accento o un altro segno, e poi c’era una riga che scivolava in giù, come se mancasse una parte. Mi sembrava che dicesse: “sono tornato perché l’amore è… qualcosa”, ma senza concludere. Ho immaginato una persona che torna in vita solo per scrivere quella frase, senza nemmeno finirla. Mi ci sono ritrovato molto, anche nella mia storia personale. Questo titolo ce l’avevo in testa da nove anni».
Questo titolo, e le canzoni che lo compongono, aiutano anche a riflettere sul tema della fine, rivalutandola in senso positivo, giusto?
«Assolutamente. Parlo della rinascita, di quei momenti in cui torni a sentirti vivo. Spesso, quando ci riprendiamo da un periodo buio, dimentichiamo il dolore che abbiamo vissuto. E invece anche la fine dello stare male ha un valore, è importante. Non è solo la fine delle cose belle, ma anche quella delle cose brutte».
A livello musicale, che tipo di lavoro c’è stato dietro la ricerca del sound?
«Amo la melodia, e spesso questo ti porta inevitabilmente verso sonorità che sembrano più “vecchie”. Non è una scelta di stile, è una specie di richiamo naturale. In questo disco ho cercato di mettere molta America: sono appassionato di folk, gospel, blues e country. Ho cercato un sound americano che in Europa conosciamo meno rispetto al pop o all’R&B».
Il disco racconta situazioni che possiamo aver vissuto tutti, ma lascia un retrogusto positivo. Questo processo è stato terapeutico per te? E credi nella forza salvifica della musica, specie attraverso l’immedesimazione?
«Sì, credo profondamente che l’arte serva a raccontare la nostra storia, anche in modo caotico e incoerente. Il racconto artistico può essere salvifico proprio perché ci fa sentire capiti, anche senza dare risposte. Io non scrivo per salvare nessuno, non sono un medico, ma cerco di ridare quello che la musica ha dato a me».
Tra le tracce che più mi hanno colpito c’è “Azzurrissimo”. Grazie anche a una collega, Marta Cagnola, che l’ha ascoltata tutta l’estate, sono arrivato alla tua musica. In un’epoca in cui escono tantissimi progetti, il passaparola torna ad avere un valore. Ti riconosci in questo tipo di diffusione? Come ti piacerebbe essere raccontato?
«Mi piace molto questa idea. Credo nel passaparola come mezzo analogico di diffusione, proprio come credo nella musica analogica. Mi piacerebbe essere raccontato così, attraverso le emozioni, le canzoni, i discorsi sulla rinascita, sull’empatia. “Cantautore da passaparola” è una definizione bellissima».
Considerando anche l’exploit di Lucio Corsi e il ritorno a un certo pop d’autore, come vedi il momento storico della musica? Ci sono anche dei lati positivi per chi fa musica oggi?
«Le logiche attuali sono strane per noi millennial: troppo giovani quando bisognava essere vecchi, troppo vecchi quando bisognava essere giovani. Ma la bellezza del mestiere resta: fare musica, vedere il pubblico crescere, incontrare persone che credono in te. Magari non diventerò mai virale, ma il mio pubblico cresce in modo autentico, umano. Questo resta la cosa più bella».
L’ascolto del disco si chiude con “I titoli di coda scorreranno sul fiume Tevere”, un brano strumentale. Lo hai pensato come se fosse il finale di un film?
«Sì, assolutamente. Questo disco è molto legato a Roma, dove ho vissuto momenti belli e brutti. Volevo chiudere con un gesto quasi rituale: lasciare andare tutto nel Tevere, come si fa nei film o nei riti in cui si affida il passato a un fiume. Era il modo migliore per chiudere questo viaggio».
Per concludere: “Vai a costruire le campane” è dedicata a tuo figlio Ascanio. Qual è l’insegnamento più grande che hai tratto dalla musica e che vorresti trasmettere a lui?
«Che la vita non va subita, ma vissuta. Che bisogna lavorarla, costruirla come se fosse un’opera d’arte, anche nei suoi aspetti più sacri. Vorrei insegnargli a godere della vita, anche nei momenti difficili. E se possibile, costruire qualcosa che vada oltre, come una campana: qualcosa che suoni per comunicare con ciò che sta più in alto».