Il racconto di una storica manifestazione Made in Italy
Dal 15 al 18 agosto 1969, la cittadina di Bethel nello stato di New York, fu meta di un pellegrinaggio destinato agli annali. Circa mezzo milione di giovani accorsero per assistere ai Woodstock Music & Art Fair presents: Three Days of Peace and Music. Per la storia, il Festival di Woodstock. In scaletta artisti come Jimi Hendrix, Joan Baez, The Who, Santana e Joe Coker si esibirono uniti dalla voglia di aggregazione e pacifismo, scaturita dal desiderio di porre fine all’interminabile e sanguinoso conflitto in Vietnam (anche in Italia lo scontro tra Usa e Viet Cong lasciò il suo segno grazie a Gianni Morandi). Il concerto divenne simbolo di una generazione, i cosiddetti hippies, chiamati a non ripercorrere gli errori dei loro padri e a proporre una nuova visione del mondo, libera e indipendente dalle logiche dell’imperialismo e della società dei consumi.
Il movimento pacifista conquistò anche l’Inghilterra, a quei tempi fervida culla di cambiamenti sociali, culturali e musicali. Sulla scia degli echi che giungevano dall’America, divenne sede di grandi raduni giovanili come il Festival tenuto annualmente a partire dal ’68 nell’isola di Wight.
La contestazione giovanile in Italia |
Tutto il mondo occidentale fu contagiato da questo modello e anche il Belpaese provò a farsi portavoce delle istanze dei ragazzi e del loro desiderio di libertà, senza tuttavia riuscire a produrre un evento anche lontanamente paragonabile a Woodstock. In Italia i moti della contestazione sessantottina provarono a fermare la 29a mostra del Cinema di Venezia, la prima della Scala e perfino, senza riuscirci, il blindatissimo Festival di Sanremo, evento che già a partire dall’edizione precedente aveva provato a farsi portavoce dell’aria di cambiamento, attraverso brani come ‘Proposta’ dei Giganti e ‘La rivoluzione’ di Gene Pitney e Gianni Pettenati. Per aspettare un vero evento organizzato in favore della musica e degli ideali dei figli dei fiori, che non fosse semplicemente un contro-evento, bisognerà aspettare qualche anno.
In giro per il mondo la svolta contestatrice degli studenti non fa più tremare la politica, ma se all’estero la situazione sembra essere tornata a una sorta di ancien régime, da noi gli strascichi continuano a farsi sentire, sfociando nei drammatici anni di piombo. A cavallo tra anni ’60 e ’70 le fronde si estremizzano e la violenza sembra diventare l’unica forma di dialogo tra reazionari e contestatori. Tuttavia, nonostante questo periodo abbia visto sfiorire il lato gioioso e festante del cambiamento, l’idea di un colossale ritrovo giovanile in stile Woodstock non è sfumata, ed è proprio in questo concitato periodo che il vecchio sogno si appresta a diventare realtà.
I primi Festival italiani |
Nel 1971, sotto la supervisione di Re Nudo, storica rivista di controcultura giovanile, nasce il primo Festival del proletariato giovanile. L’idea alla base dell’evento è quella di unire l’aspetto musicale, psichedelico e hippie della gioventù con l’impegno politico e rivoluzionario. I tempi sono cambiati e il pacifismo ormai è sempre meno motore della rivolta. Anche la musica cambia e, decaduto il beat, si assistono ai primi fermenti di una nuova concezione del pop: sperimentalismo, nuovi strumenti che fondono suoni analogici ed elettronici, rottura di ogni canone. Ad esibirsi nelle due giornate del Festival una manciata di artisti di nicchia tra cui Pino Masi e Claudio Rocchi, protagonista del prog italiano e autore della visionaria ‘La realtà non esiste’, ripresa da Franco Battiato in duetto con Alice. Prendono parte all’evento quasi diecimila persone, ma Ballabio in Valsassina, suggestiva location dell’evento, li contiene a fatica. Meglio cambiare aria.
Nel 1972 la manifestazione concede il bis, riuscendo laddove nemmeno Woodstock aveva potuto: diventare un appuntamento fisso a cadenza annuale. La line-up si arricchisce, così come gli spettatori. I 30.000 ragazzi giunti a Zerbo (Pavia) strettamente osservati dalle forze dell’ordine, assistono alle performance, tra gli altri, di Francesco Guccini, PFM, Banco del Mutuo Soccorso, Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli (autore dell’inno sessantottino Contessa), Eugenio Finardi ed Alberto Camerini. In scaletta anche i Capsicum Red, guidati dal ventunenne Red Canzian, non ancora Pooh, né bassista.
Il successo crescente della manifestazione la fa traslocare nuovamente. È il turno di Albavilla, nei pressi delle alpi comasche. Ad oltre 900 metri di altitudine accorrono in 25.000. Le prime due giornate non succede nulla, o meglio, succede tutto. In linea con lo spirito dell’evento, ognuno è libero di creare, vivere e comunicare immerso nella natura. Si sperimentano filosofie orientali e svaghi occidentali. Verso sera viene allestito un palco di fortuna con un allaccio elettrico: oltre ai soliti Rocchi e Camerini si esibisce anche un Lucio Dalla in fase di transizione jazz/cantautorale. Solo nel terzo ed ultimo giorno il Festival Pop diventa un vero concerto. Viene allestita una postazione d’avanguardia con strumenti mai visti prima: giunge, alieno tra gli alieni, Franco Battiato, con in dote duemila watt e due ore di improvvisazioni psichedeliche che ipnotizzano la platea.
L’approdo a Parco Lambro |
Nel 1974, il Festival vuole fare il grande salto puntando verso Milano (per biasimo dell’amministrazione e di parte della comunità). Il Parco Lambro, per anni il più grande della città, è ritenuto il luogo ideale per accogliere la grande mole di spettatori previsti e i relativi servizi, oltre che per fornire agli artisti degli impianti migliori. Si avvicendano oltre trenta artisti, tra i quali le new entries Angelo Branduardi, Pino Daniele, Alan Sorrenti ed Edoardo Bennato. Tra i più attesi il ritorno di Battiato e i due grandi gruppi prog dell’epoca, PFM e Area, con Demetrio Stratos che si esibisce anche da solista, presentando davanti a oltre 20.000 spettatori il suo lavoro di ricerca sul suono.
L’anno seguente la manifestazione prosegue sulla stessa linea. Il corpus artistico si arricchisce di nuova linfa cantautorale con le presenze di Giorgio Gaber, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Ivan Cattaneo. Non solo musica, ma anche impegno politico, con interventi da parte di alcuni attivisti, e teatro, con La comune di Dario Fo. Qualcosa però, inizia a scricchiolare. Se le edizioni precedenti della manifestazione si erano tutto sommato distinte, al di là di sporadici episodi, per la pacifica coesistenza tra musicisti, contestatori, attivisti e semplici curiosi venuti a respirare il vento della novità, sotto il vigile occhio delle forze dell’ordine o dei servizi d’ordine, nel 1976 a Parco Lambro c’è aria di guerra.
Sono oltre 400.000 i giovani accorsi da tutta Italia (e non solo) per vivere quattro giorni di libertà nel segno della musica, del confronto, e delle “comunicazioni fisiche e mentali alternative” (così recita il manifesto dell’evento). Il comune di Milano non apprezza. Si prevedono caotici postumi della massa accorsa al Festival e si decide di tagliare i ponti con l’organizzazione. Sono negati servizi igienici, acqua ed elettricità. Anche all’interno dei promotori dell’evento nascono dei forti dissidi. In primis viene contestato il ruolo del servizio d’ordine in una manifestazione autogestita. Per molti la strada da intraprendere è quella di un’enclave anarchica dove lasciare a ciascun partecipante il senso del limite. Ma i freni inibitori sono pochi, le sostanze stupefacenti girano rapidamente e qualcuno decide di buttare fuori con le cattive gli eroinomani.
Inizia un forte diverbio tra le varie parti in causa e presto il dibattito si allarga agli elevati costi degli stand alimentari. La proposta è quella di collettivizzare le spese e di distribuire cibo e bevande tra tutti coloro che ne avessero fatto richiesta. Nel mentre, tuttavia, un furgone di surgelati in transito nei pressi di Parco Lambro viene assalito, e il magro bottino, dei polli congelati, viene usato come arma da lancio, scatenando un putiferio. Ad inasprire ulteriormente la situazione alquanto surreale ci si mette un crescendo di tensioni interne ai movimenti di attivisti. Viene abbattuto lo stand dell’associazione omosessuali rivoluzionari ed alcune femministe vengono picchiate. In mezzo alla bolgia, intanto, si continua a suonare.
Eugenio Finardi dedica un brano, Zerbo, al Festival del proletariato giovanile. Lo fa raccontando la sua indimenticabile atmosfera e le contraddizioni esplose nell’ultima, travagliata edizione, passando in rassegna le varie annate e i suoi protagonisti.
“Ma all’ora del ’76 il mito era crollato
Perso nei calci ad un pollo surgelato
Forse sono cambiato o solo un po’ cresciuto
Ma nella Musica Ribelle io c’ho comunque creduto”
La chiusura della manifestazione |
Dopo i disordini di Parco Lambro ’76 il Festival chiude i battenti. L’utopia era ormai diventata impotenza, la gioia del cambiamento rabbia sociale, e da lì a poco sarebbe diventata nichilismo, con il totale riassorbimento delle istanze dei ragazzi in quella società dei consumi che avevano combattuto con ogni mezzo. Estremamente amare e perentorie le parole a commento dell’ultimo Festival Pop nel numero di Re Nudo del settembre successivo:
“Non ci potevano essere le condizioni per coinvolgere 100.000 persone in una proposta creativa. Era inevitabile che emergesse in modo netto la miseria della realtà quotidiana che tutti portiamo dentro”.
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