giovedì 21 Novembre 2024

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Andrea DB Debernardi: “La musica è tecnica, estetica ma anche passione” – INTERVISTA

A tu per tu con il noto produttore piemontese, tra i sound engineer italiani più richiesti e quotati

Dietro ogni progetto musicale ci sono specialisti del settore che operano con professionalità e dedizione, tra questi troviamo indubbiamente anche Andrea DB Debernardi, ingegnere del suono che da ben vent’anni si occupa di confezionare al meglio le canzoni che andiamo ad ascoltare, con grande passione.  Fondatore dello studio Fonjka Factory, insieme a Giulio Nenna valorizza le capacità di giovani quali Epicoco, Silvia Adelaide, Francesca Sarasso e altri talenti emergenti che vengono fuori dal loro accurato lavoro di scouting. Lo abbiamo incontrato in un’assolata giornata sanremese in compagnia del suo fedele compagno di viaggio, con il quale ha dato inizio ad un prolifico sodalizio artistico, coronato da questa positiva partecipazione al Festival.

Ciao Andrea, partiamo da “La ragazza con il cuore di latta“, il brano di Irama in cui figuri sia in veste di produttore che in quella di co-autore. Come hai vissuto questo Sanremo?

«Direi molto bene, l’emozione è il collante che ci sprona ad andare avanti e cercare di dare sempre il massimo, l’emotività è fondamentale per poter trasmettere qualcosa a chi ascolta, soprattutto quando si produce in ambito tecnico, bisogna sempre lasciarsi trasportare dalla passione. Questo non è un aspetto scontato del nostro lavoro, per fortuna con Filippo l’ho sempre vissuto sulla mia pelle, mi riferisco sia ai contenuti delle sue canzoni che al modo di rappresentarli sul palco».

Quando e come ti sei avvicinato a questo mestiere?

«Ho iniziato la mia attività intorno al duemila, ormai sono quasi vent’anni che sono in questo settore, nasco come un sound engineer e rimango orgogliosamente un sound engineer, perché ci tengo molto all’estetica del suono anche se, nei vari anni, ho sviluppato altre qualifiche, tra cui quella di art production, ma resto legato alla tecnica, alla registrazione e al discorso della fonia che mi piace parecchio».

Ci sono degli incontri che reputi fondamentali per il tuo percorso?

«Principalmente due, il primo con Marco Guarnerio, produttore degli 883 e titolare dello studio con cui ho iniziato, colui che mi ha svezzato in questo mondo, un punto di riferimento e un caro amico. Poi l’incontro con Giulio Nenna, con cui collaboro attivamente da anni. La musica ti mette di fronte a degli incontri incredibili, mi spiace non poterli citare tutti, ma ti faccio questi due nomi perché rappresentano le persone che hanno segnato due momenti importanti, due svolte fondamentali per la mia carriera».

Una bella alchimia, il risultato di un’ormai rodata collaborazione instaurata con Giulio Nenna. Qual è il segreto del vostro prolifico sodalizio?

«Lavorare bene e al massimo delle nostre potenzialità, tutto ciò può accadere solo quando c’è fiducia e stima reciproca, sia artistica che personale. Dal punto di vista creativo è fondamentale delineare quelle che sono le fasi, nello specifico Giulio e Filippo hanno un periodo di isolamento creativo, che li aiuta a raccogliere per bene le idee e mettere in musica le loro emozioni. Successivamente subentra il team di produzione che cerca di dare il proprio apporto collettivo per esaltare ogni singolo brano, con i propri input propositivi dati dalle rispettive competenze. In ogni confronto giocano un ruolo centrale gli stimoli, forse il segreto è proprio questo».

Tra l’altro a Sanremo sei ormai di casa, non è la prima volta che prendi parte al Festival, vero?

«Sì, occupandomi principalmente della parte tecnica, ho seguito la supervisione e la messa in onda nelle varie edizioni per diversi artisti, anche lo stesso Irama tra le Nuove Proposte nel 2016, mentre quest’anno sono qui come co-autore e produttore del brano, una veste un po’ più impegnativa ed impegnata, rispetto al ruolo di ingegnere del suono. Questo è il settimo anno che faccio Sanremo, nelle precedenti occasioni ho partecipato ai lavori di Neffa, Rocco Hunt quando vinse tra i giovani e vari artisti di cui avevo curato il master dell’inedito».

Come si è evoluto esattamente il processo che ti ha portato da tecnico del suono a produttore, fino ad autore?

«In maniera piuttosto semplice e naturale, ho iniziato come assistente in uno studio milanese, prendendo i primi contatti e facendo le prime esperienze lavorative dopo il mio percorso di studio all’APM di Saluzzo. Ho cominciato in ambito pop-rock, infatti uno dei primi dischi in cui compare il mio nome è l’album d’esordio de Le Vibrazioni del 2003, ma anche il primo da solista di Max Pezzali dell’anno seguente. Nel periodo successivo, dato il calo discografico, mi sono concentrato su lavori in studio riguardanti la pubblicità, per poi tornare più tardi a dedicarmi a produzioni hip hop, proprio nel momento in cui stava per esplodere. Ho vissuto sulla mia pelle il passaggio al mainstream, la mia carriera si è poi evoluta collaborando con i Club Dogo, J-Ax, Fedez e Baby K, tutti big che fortunatamente sono stati primi in classifica, ottenendo circa 180 dischi di platino, sicuramente numeri enormi». 

C’è una lezione che reputi importante e che hai imparato in questi anni di attività?

«Ho notato che spesso l’artista più blasonato, quello che reputi possa essere più distaccato dalla musica, è colui il quale si confronta con gli addetti ai lavori, mettendosi in gioco e in discussione, senza partire dal presupposto di avere ragione perché ha successo. Dietro le grandi star ho scoperto le persone più umili, forse è anche questo il segreto della loro popolarità».

Al di là dei grandi nomi e degli artisti fatti e finiti, con Giulio vi occupate molto di emergenti, quale marcia in più possiedono i giovani d’oggi?

«Da un punto di vista fisiologico i ragazzi hanno sicuramente più energia, fame di far vedere le proprie capacità, non intendo la voglia di arrivare, bensì quella di mostrare ciò che sanno fare. Nel nostro piccolo, ci teniamo a un certo tipo di lavoro a lungo termine, progetti se vogliamo anche più difficili da costruire, ma che hanno meno difficoltà a superare la prova del tempo. E’ molto semplice oggi puntare tutto su una potenziale meteora, sfruttare un talento concentrandosi unicamente sulle views e sui numeri. I dati vanno e vengono, lasciano il tempo che trovano e sono molto variabili. Oggi la musica va molto veloce, anche per un discorso di fruibilità, noi puntiamo ancora sulla crescita e su giovani con delle basi solide, che vadano oltre le mode attuali».

Per concludere, data la tua esperienza, in che direzione si sta dirigendo la musica?

«Bella domanda. Personalmente ho visto alternarsi vari modi di comporla e di fruirla, ma dal mio punto di vista del contenuto tutto ciò che sta alla base credo che non passerà mai, intendo dire le canzoni e le emozioni suscitate in chi le costruisce e in coloro i quali le ascoltano. Ci sono interruttori emotivi che solo la musica riesce ad attivare, che poi venga ascoltata con le cuffiette o con il bluetooth il risultato non cambia».

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.