venerdì, Marzo 29, 2024

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Antonio Maggio: “Rimbocchiamoci le maniche e riprendiamoci il nostro futuro” – INTERVISTA

A tu per tu con il cantautore salentino, in rotazione radiofonica con il nuovo singolo “Il maleducato”

Si intitola Il maleducato il brano che segna il ritorno Antonio Maggio, artista che abbiamo conosciuto nel corso della prima edizione italiana di X Factor, tra le fila degli Aram Quartet, e apprezzato come vincitore delle Nuove Proposte nel corso della 63esima edizione del Festival di Sanremo con il brano “Mi servirebbe sapere”. A due anni di distanza dal suo ultimo singolo “Amore pop” e dopo la fortunata tournée realizzata in coppia con Pierdavide Carone (qui la nostra doppia intervista), abbiamo incontrato per voi il cantatore salentino per condividere una piacevole chiacchierata musicale.

Ciao Antonio, “Il maleducato” è il titolo del tuo nuovo singolo, cosa racconta?

«“Il maleducato” è una provocazione, in questa canzone racconto di una festa come metafora del futuro, una festa in cui quelli della mia generazione non sono stati invitati da chi ci ha preceduto. Il messaggio che ho voluto lanciare è uno stimolo ad essere più sfrontati per imbucarci a questa festa e riprenderci quello che ci spetta, un diritto ma anche un dovere nei confronti di chi ci seguirà».

Avverti anche tu un senso di apatia generale nell’attuale società, in cui sembra più facile arrendersi al lamento piuttosto che spendere le proprie energie lottando per i propri obiettivi?

«Mi rendo conto che, soprattutto per quanto riguarda noi trentenni, quelle che fino a qualche tempo fa erano delle speranze si sono trasformate in delle vere e proprie disillusioni. Fare i maleducati, per come lo intendo io in questa canzone, vuol dire rimboccarsi le maniche e andare a muso duro a prenderci ciò che vogliamo. Viviamo nell’epoca dell’improvvisazione, in qualsiasi ambito è sempre più difficile scovare il talento, l’unico modo che conosco per reagire a tutto questo è una buona dose di consapevolezza e tanta volontà».

Questo brano arriva a due anni di distanza dal tuo ultimo singolo, quanto e come ti senti cambiato in questo lasso di tempo?

«Mi sto facendo grande (sorride, ndr), sto crescendo anagraficamente e di conseguenza, spero, che maturino anche le cose che scrivo. “Il maleducato” penso che sia una sorta di trait d’union tra quello che ero nelle precedenti pubblicazioni e quello che sarò nelle successive, ho come la sensazione che il pubblico abbia scoperto il mio lato più scherzoso, quel mio approcciarmi ai temi sociali con una vena ironica, con il prossimo lavoro vorrei che le persone iniziassero a conoscere anche il mio lato più intimo».

In realtà hai sempre alternato brani apparentemente scanzonati, ma sempre di contenuto, come “Mi servirebbe sapere” o “Anche il tempo può aspettare”, con ballad profonde e introspettive come “Sotto la neve”, “Un’altra volta” o “Nell’etere”. Come riesci a coniugare queste diverse sfacettature nella tua musica?

«Non ci metto tantissimo impegno, semplicemente perché lascio andare le cose dal punto di vista creativo rispecchiando quello che sono nella vita di tutti i giorni, questi due lati mi appartengono quotidianamente, non mi risulta complicato o difficile mostrarli. Poi, è chiaro, ci sono determinati momenti in cui prevale uno di questi due aspetti, di sicuro nell’ultimo ciclo creativo ha prevalso il mio lato più introspettivo, le cose che usciranno in futuro andranno verso questa direzione».

Di sicuro questa nuova fase ha risentito di una certa consapevolezza autoriale, lo scorso febbraio Patty Pravo ha incluso “Padroni non ne ho” nel suo ultimo disco intitolato “Red”. Com’è stato sentire una tua canzone interpretata da una delle regine della musica italiana?

«Un privilegio. Tieni conto che Patty non l’ho mai né vista né conosciuta, ho mandato la canzone ed è piaciuta a lei e a tutto il suo team. Naturalmente, sentir cantare una mia canzone da una delle icone della musica leggera italiana mi ha riempito d’orgoglio».

Altra bella collaborazione quella con Le Deva, hai firmato “Un’altra idea” insieme a Verdiana, Zibba e Marco Rattani. Com’è stato lavorare con le ragazze?

«Loro sono amiche, quattro caciarone proprio come me, ci frequentiamo ormai da anni, con il loro staff sono amico di vecchia data, c’è una familiarità che rende quasi scontata una collaborazione professionale. Artisticamente le reputo davvero molto forti».

Come valuti il tuo rapporto con i social network?

«Per quanto mi riguarda buono, poi se lo chiedi a chi li gestisce veramente non saprei cosa potrebbe risponderti (sorride, ndr), personalmente penso che la verità stia sempre nel mezzo. A me piace interagire in prima persona con chi mi segue, credo che sia una fonte di confronto e di crescita, parlare con la gente mettendoci la faccia ti aiuta a capire cosa c’è da migliorare in quello che fai, a livello promozionale è diventato il primo canale di comunicazione».

Pensi che il web abbia agevolato la maleducazione e questo senso di non appartenenza comune che aleggia intorno a noi? Paradossalmente, la rete che è nata per unire, se usata in malo modo, produce l’effetto contrario…

«Sai cosa ha fatto la rete piuttosto? Ha reso la musica un fatto dovuto, qualcosa di scontato. Una volta, prima dell’avvento del web, per ascoltare un disco dovevi comprarlo, adesso è tutto completamente diverso, i pezzi li ascolti gratuitamente quasi ovunque. La digitalizzazione avrà sicuramente anche fatto del bene alla musica, ma questo è l’aspetto determinante che ha affossato un po’ tutto il circuito».

Ti senti rappresentato dalle proposte musicali che compongono oggi la fetta più grande del mercato?

«Se andiamo a vedere le zone alte delle classifiche attuali non troviamo cantautori, anche solo se dovessi analizzare questo dato ti direi che non mi sento rappresentato. Provengo da ascolti totalmente diversi da quelli che sono in voga oggi, pur riconoscendo un buon livello cantautorale, da Niccolò Fabi a Daniele Silvestri, passando per Brunori Sas, grandi artisti che non fanno sicuramente trap, di cui ho la fortuna di essere amico, oltre che loro fan».

Avendone la possibilità, rinasceresti in questa precisa epoca o c’è un particolare decennio che consideri più vicino al tuo modo di intendere la musica?

«Nell’epoca dell’omologazione c’è una certa difficoltà nell’avvertire un senso di appartenenza. Ovvio che, trent’anni o quarant’anni fa, anche solo l’idea di far parte di un circuito musicale in cui c’erano artisti del calibro di Lucio Dalla, Fabrizio De Andrè e Rino Gaetano sarebbe stato per me una figata».

In che direzione andrà la tua musica? Cosa dobbiamo aspettarci dalle tue future produzioni?

«I miei prossimi progetti hanno un obiettivo preciso, quello di mostrarmi a 360 gradi, in particolare quel lato rimasto apparentemente in disparte alle orecchie del pubblico. Ho questo desiderio, farmi conoscere anche per il mio b-side, che non è il lato b che potete immaginare…».

Per concludere, qual è la lezione più importante che senti di aver appreso dalla musica?

«Che non bisogna sicuramente avere fretta di uscire per forza a tutti i costi, ma di farlo quando si ha veramente qualcosa da raccontare alla gente. Oggi c’è talmente tanto affollamento che se un artista si ferma per sei mesi sembra sia passata un’eternità, mentre un cantautore ha dei tempi ed è normale tra un disco e l’altro ritirarsi in meditazione. Se non si ha qualcosa da raccontare, sia a livello di contenuti che di forma, meglio non uscire, perché nella musica conta solo una cosa: essere sempre se stessi, che ti ascoltino in dieci persone o in dieci milioni non cambia».

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Nico Donvito

Appassionato di scrittura, consumatore seriale di musica italiana e spettatore interessato di qualsiasi forma di intrattenimento. Innamorato della vita e della propria città (Milano), ma al tempo stesso viaggiatore incallito e fantasista per vocazione.
Nico Donvito
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