Un’analisi accurata sulle principali differenze che intercorrono tra l’Italia e gli Stati Uniti, due diverse realtà che la cantante conosce alla perfezione.
Dopo avervi raccontato la storia di Filippa Giordano, abbiamo contatto un’altra artista nostrana che riscuote grande successo all’estero, collezionando una serie di prestigiosi duetti internazionali del calibro di Pitbull, Flo Rida, Shaggy e Will.I.am. Stiamo parlando di Arianna Martina Bergamaschi, meglio nota semplicemente come Arianna, ragazzina prodigio degli anni ’90 che ha prestato il suo volto e la sua voce a tanti classici della Disney, fino a partecipare tra le Nuove Proposte del Festival di Sanremo nel 1999, classificandosi al quarto posto con l’intensa ballata “C’è che ti amo”. Un lungo impegno teatrale con diversi musical di successo, tra cui “La bella e la bestia”, che l’ha portata a calcare i palcoscenici internazionali più importanti. Abbiamo raggiunto telefonicamente l’artista milanese, che da qualche anno vive stabilmente tra l’Italia e gli Stati Uniti, per sentire il suo parere sulla situazione discografica del nostro Paese e su quello che abbiamo da imparare per poter tornare allo splendore di un tempo.
Ciao Arianna, la nostra musica è sempre stata molto apprezzata, sin dagli inizi del secolo scorso la esportavamo nel mondo, fino a quando abbiamo cominciato ad importare quegli stessi generi che in precedenza avevamo ispirato. Cosa è successo secondo te?
«Credo che l’errore sia stato scimmiottare quello che loro sanno fare meglio di noi. I tenori americani non fanno i pienoni che fa Il Volo, il motivo è semplice: saranno pure vocalmente bravissimi ma non sono italiani, non hanno il nostro bel canto nel dna. Un artista può studiare l’Opera tutta la vita, ma non la interpreterà mai come l’originale, io stessa posso cantare Whitney Houston a tutte le ore del giorno e della notte, ma non sarò mai lei. Ognuno di noi deve fare quello che l’istinto gli consiglia di fare, senza seguire nessun altro. Agli americani non interessa quanto o come sei bravo, ma cosa puoi dargli di diverso rispetto a quello che già hanno. La mia canzone ‘Sexy people’ realizzata con Pittbull, credo sia piaciuta così tanto proprio perché cantavo nel ritornello la famosa canzone napoletana ‘Torna a Surriento’, in maniera molto riconoscibile e italiana, non ho cercato di rendere il mio canto moderno e questo l’hanno apprezzato, perché se l’avesse cantata un collega americano non sarebbe venuta così».
https://www.youtube.com/watch?v=x_a4e-WazJo
Rispetto al Sud, nel Nord America si esporta oggi poca musica italiana. Le uniche eccezioni sono rappresentate da artisti come Andrea Bocelli e Luciano Pavarotti, perché secondo te?
«Perchè tra la mozzarella di bufala fatta da loro e quella italiana sceglieranno sempre la nostra, perchè è più buona e lo riconoscono. Ma se dobbiamo andare lì con qualcosa che non ci rappresenta e che, peggio ancora, sanno fare meglio loro… ovviamente non ci considerano nemmeno. Il nostro è un Paese pieno di talento, la vera differenza è che in Italia c’è troppo provincialismo e nepotismo. Per carità, la raccomandazione esiste ovunque, ma negli Stati Uniti ti serve per arrivare prima a fare un provino, superare la coda alle audizioni, ma una volta lì se non dimostri il tuo talento sei fuori. Non importa di chi tu sia figlio, amico o amante, il loro unico obiettivo è fare soldi e per questo scelgono in base alle regole del mercato. Sono molto spietati, mentre noi siamo più sentimentaloidi e tendiamo ad agevolare un amico rispetto a qualcuno che è oggettivamente più bravo».
Al contrario però questo funziona, nel senso che noi importiamo e cerchiamo di fare nostri dei generi che appartengono al loro background culturale, vedi il rap…
«Finchè noi creiamo un rap nostrano, meno duro e più melodico per certi versi lontano anni luce da quello americano, mi sta pure bene perché sono per le contaminazioni e la sperimentazione. Ma se poi questo stesso prodotto tentiamo di portarlo lì, è ovvio che non verrà apprezzato e, forse, neanche capito. Loro sanno di essere i detentori dell’internazionalità e guardano il resto del mondo, è brutto dirlo, con un po’ di superficialità, fatta eccezione dell’originalità, un valore che riconoscono e apprezzano più di ogni altra cosa. Il problema del pubblico italiano è che è stato educato dalla televisione ad accontentarsi di scarsa qualità, se abitui un bambino a fare colazione ogni giorno con le merendine, quando provi a fargli assaggiare una pesca lui la sputa, eppure è più buona e più sana, ma non la vuole».
Alla luce della tua esperienza, secondo te, di chi è la vera responsabilità di questo degrado culturale?
«Non voglio sembrare troppo polemica, ma sono cose che purtroppo vivo e vedo tutti i giorni da anni. Ogni volta che mi sposto le differenze sono così chiare che i paragoni arrivano da soli, non devo nemmeno applicarmi io nel farli. Non dico che in America sia tutto bello, anzi, ci sono tante cose che non vanno, perché fondamentalmente gli manca la nostra cultura storica. La responsabilità del nostro indebolimento è chiaramente delle persone che ci hanno governato e tuttora ci governano, che vogliono tenerci ad un determinato livello, perché crescere significherebbe far perdere il posto di lavoro a tutti quegli incapaci messi lì per caso e, probabilmente, anche a loro stessi. Capisci come la cosa non gli convenga».
In una precedente intervista, a tal proposito, la tua collega Filippa Giordano (con la quale hai condiviso un Sanremo Giovani nel ’99) ci ha raccontato di come sia stata costretta a rinunciare a pubblicare i propri album in Italia per poter continuare a fare musica liberamente. Cosa pensi a riguardo?
«Ah, questa proprio non la sapevo. Ma veramente? Beh, è un qualcosa che si commenta da solo, la tipica barzelletta all’italiana che a me personalmente non fa ridere. Il riscontro che ha Filippa in Messico è davvero pazzesco, basta andare su YouTube per vedere la portata del suo successo all’estero. E’ stata una delle prime ad avere l’intuizione di rivisitare l’Opera in maniera meno classica, cosa che ci invidia davvero tutto il mondo. Anche io, nel mio piccolo, noto queste differenze».
A cosa ti riferisci?
«Prendiamo il mio ultimo singolo con Will.I.am intitolato ‘Mona Lisa Smile’, il ritornello è un rifacimento del tema centrale del film ‘Orfeo negro’ degli anni ’60 ed è stato molto apprezzato oltreoceano perché, anche se la canzone era originariamente brasiliana, si adatta alla perfezione al nostro stile melodico, in più l’ho cantata volutamente in italiano. Nel mio Paese, invece, non è stata molto capita e anziché apprezzare il fatto che una loro conterranea abbia collaborato con un artista internazionale del suo calibro, non ho avvertito lo stesso calore. L’orgoglio nazionale è stato superato dalla gelosia e dal livore, dovuti alla frustrazione di chi non riesce a emergere, ad esprimersi, così si incattivisce e accanisce contro chi riesce a realizzare qualcosa. A loro consiglio di guardare oltre e di trasferirsi per un po’ altrove, per scoprire che le cose sono raggiungibili anche più facilmente rispetto al nostro Paese, ovviamente se possiedi del talento».
Quindi, la coesione tra i colleghi si è trasformata in diffidenza o, peggio ancora, in indifferenza?
«Credo ormai di si. E’ tutta una questione di mentalità, io faccio meno fatica ad entrare in contatto con artisti americani celebri in tutto il mondo che di alcuni artisti italiani che a stento emergono in Italia. Questo lo dico senza paura che qualcuno si offenda, perché è la verità. Per arrivare a rapportarmi con i miei colleghi devo passare attraverso mille filtri e se ci arrivo avverto sempre un po’ di freddezza, parlo di gente che mediamente ha fatto poche cose e che se la tirano manco fossero la Regina Elisabetta. Negli Stati Uniti non è così, sono amica di Michael Bolton e Quincy Jones, personaggi che hanno fatto la storia della musica e che non hanno bisogno certo di presentazioni. In Italia i rapporti umani tra colleghi, invece, si riducono a collaborazioni e dietro le quinte c’è davvero poco, perché c’è sempre un po’ di competizione e gelosia. Siamo diventati un popolo di frustrati, viviamo sempre sul chi va là, convinti che dietro ci sia sempre la fregatura. Ci hanno portato a diventare un po’ provinciali, prima non lo eravamo affatto».
E per questo motivo che le tue collaborazioni negli ultimi anni si sono concentrate più all’estero che in Italia?
«Certo! Se domani mi sveglio e chiamo tutti i discografici italiani, ormai li conosco tutti, e dico loro che voglio fare un duetto con… chiunque, non faccio nomi ma la regola vale per la maggior parte degli artisti purtroppo, avrei sicuramente molta più difficoltà rispetto a tutti i duetti che ho realizzato fino ad oggi all’estero. Ne sono certa di questo e quando sbatti contro il muro tante volte poi ti passa pure la voglia di provarci. C’è troppa burocrazia, troppi intermediari che rendono tutto più complicato di quello che è, e se riesci magari ad arrivare all’artista rischi pure che se la tiri manco avesse vinto un Grammy Awards. Poi, chiaramente, esistono le eccezioni e le collaborazioni sincere che nascono frutto di una stima personale e professionale, ma rappresentano ormai una rarità. La filosofia della discografia ormai è la stessa in tutto il mondo, tirare fuori più singoli possibili… almeno uno andrà bene. Tanto, come dice il mio amico Shaggy, anche un flop non può essere considerato tale se sei venuto a conoscenza della sua esistenza… il famoso pur che se ne parli».
Per concludere, cos’hanno più di noi gli americani?
«La praticità, la voglia e la capacità di fare davvero i soldi, ma non a discapito di qualcun’altro, come si usa fare da noi. Dopo un duro lavoro i risultati arrivano sempre, lo so che le scorciatoie sono più facili e comode da raggiungere, ma abbiamo perso il senso della meritocrazia. Viviamo nel Paese più bello del mondo, con una storia e una cultura che fanno da scuola, potremmo essere il popolo più ricco anche a livello economico se solo riuscissimo a cambiare la nostra testa e pensare in maniera diversa. E’ come se la donna più bella del mondo non si pettinasse, non si lavasse e non uscisse mai di casa. Le possibilità le abbiamo tutte, ci manca la voglia di cambiare veramente».
Vuoi aggiungere altro?
«Direi che ho detto davvero tutto. Se sono sembrata un po’ dura è solo perché amo il mio Paese, altrimenti sai cosa me ne fregherebbe? Ho la green card e potrei andarmene a vivere in pianta stabile negli Stati Uniti anche domani, ma non riuscirei a rinunciare per troppo tempo a tutta la straordinaria bellezza che abbiamo. Ci siamo adagiati a questo status di mediocrità in cui viviamo da decenni, come quando andavo a scuola io e la maestra diceva ai miei genitori la frase ‘è brava ma non si applica’. Dobbiamo smettere di accontentarci della sufficienza e puntare più in alto, di base i requisiti ce li abbiamo tutti».
Nico Donvito
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