venerdì 22 Novembre 2024

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Artù: “Io, cantautore ibrido e libero dalle etichette” – INTERVISTA

A tu per tu con l’artista romano classe ’82, in uscita con la sua terza fatica discografica “Vola Ale!

Artù Vola AleNon è indie, non è mainstream, Alessio Dari si sente semplicemente Artù, un cantautore ibrido e, di conseguenza, libero dalle etichette. Attraverso l’ironia lancia messaggi importanti, nascosti perbene dietro una sana leggerezza che, in questo particolare momento storico, non guasta. Anticonformista fuori dagli schemi, ha raccontato semplicemente se stesso nel suo nuovo album “Vola Ale!”, una presa di coscienza intima e personale sull’attuale momento storico che stiamo vivendo. Il suo motto? Non prendersi mai troppo sul serio.

Ciao Alessio, partiamo da “Ti voglio”, brano incompiuto del geniale Rino Gaetano. Una specie di restaurazione che ti ha visto protagonista anche in una parte del testo, com’è avvenuto esattamente il tutto?

«Ho ascoltato un suo provino che praticamente era quasi finito, mancava soltanto il testo di due strofe. Nell’incisione originale si sentiva Rino che cantava “na na na na”. Su quella metrica ho aggiunto le mie parole “La stagione dei vent’anni corre sulle ferrovie, la stagione dei tuoi anni vive nelle sere mie” e poi “Nel ricordo di una rosa rossa e delle tue poesie, nei tuoi occhi c’era tutto il resto delle mie follie”, tutto è avvenuto in maniera abbastanza inconscia».

E’ un po’ come vincere l’appalto per il restauro della Cappella Sistina, immagino da una parte ci sia stata un’immensa gioia, mentre dall’altra una grande responsabilità da affrontare. Hai sentito un po’ il peso nel lavorare ad un brano inedito di un artista così importante? 

«Quando Anna Gaetano (sorella di Rino, ndr) mi ha fatto sentire il provino e mi ha chiesto di completarlo, lì per lì le ho detto subito di sì, poi ho cominciato a pensare alla grande responsabilità che mi ero assunto. Ho cominciato a pensare “E mò? Che faccio?”, infatti, per qualche giorno mi sono sentito bloccato, non riuscivo a scrivere niente. Invece dopo mi sono lasciato andare e ho buttato già quelle frasi scrivendole con lo stomaco, più che con la testa».

Un artista sempre attuale, quale credi sia il segreto del suo successo che continua a durare nel tempo?

«Il segreto è la verità, Rino mi ha insegnato il valore del non prendersi mai sul serio, di non sentirsi mai schiavi di nulla, soprattutto di se stessi. Se dimostri al mondo chi sei veramente non puoi avere paura di niente, nemmeno del giudizio delle altre persone. Le sue canzoni sono apparentemente semplici, pensate per arrivare a tutti, lui aveva capito prima di tutti in che direzione saremmo finiti. Viviamo in un’epoca frenetica, dove non abbiamo il tempo per metterci ad ascoltare e riflettere sul valore delle parole, i suoi testi nascondono milioni di significati in un’apparente leggerezza».

Rispetto ad un così grande artista del passato, com’è cambiato il settore discografico di oggi?

«Molto, forse troppo. Mi sento orfano da parecchio tempo di un certo tipo di musica, che vado a riprendere ascoltando molte produzioni antecedenti agli anni ’80. Un tempo c’erano grandi personaggi che riuscivano ad acchiappare trasversalmente il pubblico, oggi ci sono sicuramente talenti del genere ma vengono tenuti a bada, perché si sono accorti che i veri miti sono scomodi, perché dicono quello che pensano e, anche attraverso la musica, smuovono il parere del pubblico. Per questo preferiscono dare spazio a piccoli miti, che magari durano un paio di anni e che prendono soltanto una singola fascia d’età, tra l’altro quella più influenzabile». 

ArtùA che pubblico ti rivolgi? Anche se è brutto classificare l’arte, ti sei fatto un’idea di chi potrebbero essere i tuoi ascoltatori abituali?

«In realtà, quando suono dal vivo vedo persone di tutte le età, addirittura anche i bambini. Penso sia questa la vera cosa pazzesca, per questo continuo con determinazione a portare avanti il mio progetto, perché trovo un riscontro trasversale, a differenza di chi esce oggi e prende una sola fascia di pubblico, di conseguenza è destinato a durare poco nel tempo. Io mi sento profondamente e orgogliosamente old school».

Per te contano di più 100 follower su Instagram o 10 persone che ti vengono ad ascoltare dal vivo?

«In assoluto le dieci persone che mi vengono ad ascoltare, perché dopo ci parlo e chiacchiero come sto facendo adesso con te. Poi, ovvio, sui social cerco di essere il più attivo possibile, rispondo a tutti e questa cosa non mi pesa, perché è un modo come un altro di interagire con le persone che ti seguono e apprezzano la tua musica. Se non ti rapporti con il pubblico che senso ha fare questo mestiere? Uscire con un disco senza ascoltare il riscontro delle persone lo trovo davvero inutile».

In tal senso, il web ha portato più vantaggi o svantaggi al mondo della musica?

«Tutto dipende dal mondo in cui lo utilizzi, io lo trovo un mezzo utile per promuovere il mio lavoro ma, al tempo stesso, per conoscere tutte le persone che mi ascoltano, sapere chi sono, che fanno e perché hanno deciso di dedicare il loro tempo alla mia musica. Poi, c’è anche chi lo utilizza senza criterio e scrive cose senza prima pensarle, ecco quello lo trovo sbagliato, perché lasci comunque traccia nella rete e, magari, lanci un messaggio poco positivo».

Venerdì 25 maggio esce il tuo nuovo disco “Vola Ale!”, cosa hai voluto fotografare?

«Questo è momento di crisi generale, che poi riflette dentro di me, perché mi sono accorto di aver perso un po’ di punti di riferimento, sia per quanto riguarda la religione che la politica. Dobbiamo tornare a credere in noi stessi, prendere coscienza delle nostre grandi potenzialità e far sentire un po’ di più la nostra voce, la nostra ormai è una società quasi passiva, non si incazza più nessuno. Ho voluto parlare come sempre di me, di quelle che sono le mie preoccupazioni. La credibilità per un cantautore è tutto e deriva dalla percentuale di verità che trovi all’interno delle sue canzoni, questo a prescindere se parliamo di pezzi leggeri o più profondi».

ArtùC’è un brano a cui ti senti particolarmente legato?

«Un po’ tutti, ma in particolare alla storia di “Ma lo sai cosa c’è”, un pezzo che parla di una ragazza piena di difetti che non riusciva ad accettare. Nella canzone ho voluto farle capire che la sua bellezza è rappresentata da queste imperfezioni che ti fanno innamorare di una persona, proprio perché è diversa da tutte le altre».

Alla luce di tutto quello che ci siamo detti, quale messaggio vorresti trasmettere al pubblico, oggi, attraverso la tua musica?

«Che siamo tutti liberi e non dobbiamo aver paura di niente, andiamo avanti tirando fuori il nostro coraggio e rendiamo più leggeri possibili le nostre giornate ».

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.