Rintracciamo un tema dentro ai testi delle canzoni
Ci sono finestre che la musica non sia in grado di aprire? Confini oltre i quali una canzone non possa osare a spingersi? Domande solo apparentemente retoriche, se pensiamo quante volte, nel corso della storia, la censura abbia fatto selezione sui testi, anche musicali, per contenere il pensiero libero di chi scrive e di chi, attraverso l’ascolto, potesse trarne informazione, formazione e in senso lato emancipazione.
Come parlare, a questo punto, di quel pop a tema sociale, politico, civile, che mentre si canta, scopre le carte, racconta, denuncia fatti e persone, induce alla riflessione ed educa a un intrattenimento consapevole? Quando questo accade, nel genere musicale che per la più classica tradizione italiana si ritiene delle “canzonette”, prende il sapore della meraviglia, come di fronte a una perla e dello stupore come per gli eventi inattesi.
Provando a disegnare una mappa dei modi con cui vengono trattate le mafie, potremmo cominciare dalle parole di Domenico Modugno, che rimbombano come pietre, quando dice “Mafia è leggi di sangue. Mafia è leggi d’unuri. Leggi ca spacca lu cori Senza virtù, senza pietà“. La formula del racconto e della cronaca accomuna molti testi su questo tema. Per esempio, Ornella Vanoni in “Hanno ammazzato il Mario“, una delle canzoni della mala, ci fa entrare direttamente nella scena di quella fine, con Mario “in bicicletta in una sera che il cielo era arancione. Lui stava andando da Lina che l’aspetta. E ha trovato un tale sul portone. Era il questore che gliel’avea giurata. Per colpa sua non ha l’avanzamento. Ha pedinato la sua fidanzata. E l’ha beccato sull’appuntamento“; oppure Federico Salvatore in “C’era nel vicolo” dove “c’è un pentito che canta da solo e un mafioso di nome Tritolo“.
L’indicativo presente, imperfetto o il passato prossimo descrivono i fatti di un passato (recente o lontano), i cui effetti avvertiamo ancora come vivi. L’uso del dialetto evidenzia, invece, la matrice geografica di un fenomeno che, storicamente, si origina in molte zone del Sud: così Giorgio Faletti, per la prima volta nella veste di scrittore e interprete, apre con l’esclamativo “Minchia“, traghettandoci dritti in terra siciliana per ascoltare insieme a quel “signor tenente”, che potrebbe considerarsi la trasposizione del pubblico, di quella piaga sociale che è la mafia (innominata per tutta la canzone), ma soprattutto di tanti giovani poliziotti, “che di coraggio ne abbiamo tanto, ma qui diventa sempre più dura, quando ci tocca di fare i conti con il coraggio della paura“. In apparente contraddizione, coraggio e paura sono facce di una stessa medaglia, dove la paura come stato emotivo ha per risvolto il coraggio come stato razionale. “Minchia signor tenente“, ritorna 6 volte nel testo come un mantra di disprezzo nei confronti di “questa vita di stracci e sorrisi e mezze parole“, sottopagata e derisa dalle barzellette, “ma è l’unica che c’è” e di speranza perché “forse possiamo cambiarla“.
È l’avverbio dubitativo “forse” la chiave di volta anche nella “Povera patria” di Franco Battiato, a precedere e aprire la via della possibilità che, dopo un iniziale pessimismo “non cambierà, non cambierà“, diventa “no, cambierà forse cambierà” e ancora “sì, che cambierà vedrai che cambierà“. Il futuro prende piede, la speranza si fa certezza e il muro del silenzio su certi fatti comincia a scricchiolare in Fabrizio Moro, grazie a “uomini che passo dopo passo hanno lasciato un segno con coraggio e con impegno con dedizione contro un’istituzione organizzata Cosa Nostra“. Fabrizio non ha paura a dirlo in chiari termini perché “la bocca è fatta per parlare, le orecchie ascoltano non solo musica, non solo musica” e tanto ancora potrà cambiare se si ascolta la voce della ragione, a cui il cantante si appella utilizzando l’imperativo esortativo “pensa“, che dà il titolo al pezzo, oltre ad aprire il ritornello. “Pensa” è un monito a fermarsi “prima di sparare, prima di dire e di giudicare” e, al contempo, un invito “prova a pensare, pensa che puoi decidere tu” e scegliere in nome di ideali più alti di una certa lurida vita, anche a costo di rinnegare le proprie radici.
Ecco i Modena City Ramblers e la canzone sulla morte di Peppino Impastato, un pezzo simbolo che si apre con il dialogo dell’omonimo film “I cento passi“. “Conta e cammina..95, 96, 97, 98, 99, 100..lo sai chi ci abita qui? U zu Tano ci abita qui.. cento passi ci sono da casa nostra, cento passi” che separano il bene dal male, il pulito dallo sporco.
Con Jovanotti troviamo un conforto: sono diventati tanti a non voler sottostare al giogo “dei boss al potere, sono migliaia di ragazzi in piazza a Palermo” a salutare la bara del giudice Falcone. “I ragazzi non possono stare a vedere(…) denunciano (…) son stanchi e sono nervosi, in nome di Dio a fanculo i mafiosi” e a fanculo quei politici che li proteggono col silenzio come dichiara apertamente Daniele Silvestri “ma so che c’è qualcuno che sa tutto Uno che c’era, un pezzo grosso Ma adesso è troppo che l’aspetto. Non può finire, non può sparire, Non può morire… così Ma se penso al tempo che è passato E quanto ancora passerà, No non credo proprio che sia giusto E che sia giusta questa orribile omertà, Perché si sa si saaa si saaa si saaa Che la faccenda è grossa E per di più c’era un’agenda rossa“… del giudice Borsellino “e non si trova più“.
Ora è il tempo di compiere un passo in più, ora che si dice apertamente che “conosci tutti i santi, tutti i nomi dei potenti e sai che fine fanno gli innocenti. La verità è una scelta, la verità è già pronta” per dirla con Ligabue.
Questo è un pop responsabile, che si fa carico di un messaggio civile anche per le prossime generazioni: non si può più stare dietro la finestra e guardare senza vedere, con “gli sguardi attoniti della gente che non ha mai visto né sentito niente” canta Carmen Consoli in “Esercito silente“, e “chissà se il buon Dio perdonerà il silenzio. Chissà se il buon Dio perdonerà il silenzio. Chissà se il buon Dio perdonerà Palermo“.
Francesco Penta
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