Un secolo di voci, musica e storie che hanno fatto grande la radio, tra passato e attualità, davanti e dietro il microfono. A cura di Pio Russo
Benvenuti a “Century Radio”, la rubrica dedicata ai cento anni della radio. In questo spazio esploreremo l’affascinante mondo della radiofonia, non solo attraverso ciò che ascoltiamo, ma anche svelando cosa accade quando i microfoni si spengono. Radio Marco Biondi
Pio Russo racconta l’evoluzione e l’involuzione di un mezzo che ha segnato intere generazioni, portando musica, voci e storie nelle case di tutto il mondo. Dal fascino delle prime trasmissioni fino all’era del digitale, in un viaggio tra passato, presente e futuro della radiofonia.
Century Radio, intervista a Marco Biondi
Marco Biondi, uno dei più noti conduttori radiofonici italiani. L’intervista ne esplora la carriera, partendo dai suoi primi passi nel mondo radiofonico a soli 15 anni, fino al suo attuale lavoro a Radio Capital. Abbiamo parlato dell’evoluzione del mezzo radiofonico, il ruolo della musica nella radio, il suo punto di vista sulla radiovisione.
L’intervista si conclude con un messaggio di incoraggiamento ai giovani che aspirano a diventare conduttori radiofonici, sottolineando la necessità di studiare, di prepararsi e di essere precisi nelle proprie comunicazioni. Marco è in onda, dal lunedì al venerdì, dalle 16 alle 18, su Radio Capital con “Capital Records”.
Ciao Marco e benvenuto sulle “frequenze” di Century Radio
«Ciao a te e a tutti i lettori e grazie per l’invito».
Partiamo dall’inizio, come e quando hai cominciato?
«Eh, io ho cominciato per scherzo, senza sapere esattamente quello che sarei andato a fare perché avevo solo 15 anni, era il 1976, quindi i quindicenni, noi quindicenni del 1976 non eravamo, diciamo la verità, svegli come i 15enni di oggi, no? I miei avevano un bar nel centro del paese, io studiavo e davo una mano a loro. A un certo punto ho aperto una radio a Soresina, provincia di Cremona, il mio paese dove sono nato e cresciuto. E mi hanno coinvolto perché sapevano che io, nonostante avessi solo 15 anni, ero già un appassionato di musica, avevo già parecchi dischi in vinile. Soresina era un centro di 10.000 abitanti all’epoca e quindi cercavano persone che fossero appassionate di musica per inserirle nella radio. La radio era già in prove tecniche di trasmissione all’epoca, qualcuno trasmetteva, ma ufficialmente non era ancora partita. Mi hanno chiesto se mi interessasse e io ho risposto di sì, ma senza sapere esattamente cosa andavo a fare. Loro mi avevano anche detto, guarda, stiamo cercando anche persone che oltre appassionati di musica abbiano dei dischi da mettere a disposizione perché, sai partiamo, il budget è basso. Era la radio del comune».
Nonostante tutto, hai accettato subito?
«Ho detto “Va bene, tutti mettono a disposizione i loro dischi, io metterò a disposizione i miei, però avrò a disposizione anche quelli degli altri”. Quindi per me la figata era andare ad ascoltare dischi che non avevo e scoprire magari artisti che non conoscevo, no? Per me era quello il gioco della radio. Non mi rendevo conto. Tant’è vero che la prima trasmissione che ho fatto, in realtà non era una trasmissione. Eravamo io ed un mio amico d’infanzia che avevo coinvolto anche lui esperto di musica. Ci hanno presentato durante un programma serale di un di uno speaker di questa radio, come i nuovi conduttori, ma quando facevano le domande a me ero imbarazzatissimo, ero proprio diventavo paonazzo, non riuscivo a parlare, avrò detto tre parole in croce. Ero veramente un ragazzo molto timido all’epoca, tant’è vero che ho pensato che la cosa finisse lì a quel punto. invece mi hanno dato la possibilità di continuare, ero il più giovane del gruppo, ed è stata un’esperienza che mi ha formato. Ho imparato cos’era stare dall’altra parte del microfono, invece che ascoltare la radio come già facevo».
C’è stato qualcuno che ti ha fatto avvicinare alla radio?
«Mia madre è sempre stata un’appassionata di radio, quindi io sono cresciuto con la radio accesa da mia madre sempre sulla Rai, sui grandi programmi degli anni 60, Hit Parade di Lelio Luttazzi. Gran varietà di Johnny Dorelli e quei programmi lì. Poi da ragazzino avevo scoperto Popoff, il programma serale della RAI e quindi lì avevo scoperto brani di gruppi tipo i Jefferson Starship che non conoscevo e altre cose, insomma. Per cui ero già ascoltatore, ma non così accanito e trovarmi dall’altra parte mi ha fatto scattare poi nel tempo un amore incondizionato verso la radio. però non mi rendevo conto di quello che stavo facendo».
Quindi, diciamo che la radio non era il tuo piano A. Che cosa avresti voluto fare se non avessi intrapreso questa strada?
«Allora, io da ragazzino volevo fare il maestro. Tant’è vero che volevo iscrivermi alle magistrali una volta finite le medie, ma non ho potuto farlo perché per andare alle magistrali bisognava andare a Cremona, non c’era a Soresina. Siccome mia madre in quel periodo ha avuto un problema fisico, ha dovuto essere ricoverata in ospedale per un’operazione anche importante e noi avevamo un bar, mi era stato chiesto proprio dai miei genitori di scegliere una delle due scuole che c’erano a Soresina, che erano ragioneria e geometri e per poter dare sostituire mia madre al bar al mattino quando lei apriva, allora ho detto “Ok, non ho farò le magistrali”. Sono andato a iscrivermi a ragioneria e mi sono diplomato, però non era esattamente quello che avrei voluto fare. Era il sogno di mio padre mettermi in banca, questo sì, ma il mio sogno da ragazzino era fare il maestro».
Naturalmente non credo che tu possa ricordare il primo brano che hai trasmesso, però c’è un brano rispetto agli altri che ami più trasmettere, che ti fa stare bene mentre sei in onda?
«Ce ne sono tanti in realtà trovarne solo uno è difficile, ma, quando mi chiedono di scegliere dei brani da mettere in onda per delle interviste in radio, uno di quelli che non manca mai e credo che sia anche interessante metterlo visto che spiazza un pochino quelli che mi conoscono, perché si aspettano da me magari un brano dei Beatles, un brano di Bowie soprattutto eccetera. è il remix che ha fatto Morales di Jamiroquai di Space Cowboy che trovo sia, ancora oggi, un capolavoro assoluto della musica».
A proposito di musica, no, tu lavori anche per Sorry Mom, oggi la musica in radio, diciamo, che si è un po’ omologata. Quanto è difficile poter lanciare un nuovo gruppo o un nuovo artista in radio oggi?
«Difficilissimo. È difficilissimo perché i nomi nuovi sono un po’ monopolizzati dai talent e comunque neanche loro riescono a imporsi più di tanto perché comunque i ragazzi che escono dai talent e poi riescono ad avere successo sono veramente pochi. Ce ne sono stati che hanno avuto tanto successo, questo sì, di clamorosi, ma sono comunque pochi in proporzione a quelli che ci partecipano. È veramente difficile oggi. Oggi la radio, purtroppo, in generale non fa più o, almeno alcuni network non fanno più il lavoro di di scoperta di nomi nuovi che si è sempre fatto in, però devo dire che noi con Sorry Mom lavoriamo molto bene con le radio locali. Lì c’è c’è tanto fermento. Scopro ancora nelle radio locali in giro per l’Italia in tantissime persone la voglia di mettere cose nuove, di dare fiducia a delle band emergenti e allora sì, allora lì c’è un territorio sicuramente molto interessante. Certo, si parte da lì e si cerca di arrivare poi più in alto. Però resta molto difficile».
A proposito di grandi network e anche di radio regionali tra le più importanti, usano molto una cosa che a me non piace delle radio moderne, la radiovisione. Tu che cosa ne pensi?
«Ma guarda, noi a Capital non ce l’abbiamo e sono felicissimo che non ci sia, ti dico la verità, non per altro, ma sai, come sempre è questione di gusti, è questione di di operazioni di marketing perché quello è alla fine nella radiovisione, è questione di che importanza si vuole dare alla parte visiva della radio. La radio ha sempre vissuto di un fascino suo che non prevedeva la visione. Poi oggi vincono i video fondamentalmente sui social, però io credo che alla fine, a conti fatti non ci siano questi grossi dati che arrivano dalla televisione per la radio. Vedo solo una grande esposizione mediatica perché magari molti bar tengono accesa la TV di una radio invece che di un’altra. Spesso e volentieri io entro in posti pubblici dove c’è la televisione di una radio e la musica che va da Spotify, per esempio, quindi non c’è l’audio. Quindi l’ho sempre pensata più a un’operazione di marketing che altro, onestamente. L’unico programma che guardo in radiovisione è Deejay chiama Italia, perché è fatto molto bene anche dal punto di vista visivo, con degli ospiti fighi ed è divertente. La radiovisione fatta così ha un senso».
Attualmente, dopo tantissime cose che hai fatto, sei a Capital Radio Capital, conduci Capital Records, come ci sei arrivato?
«Sono arrivato quest’estate, ma è stato un caso. La storia è assurda perché ero in un supermercato, ho incontrato un caro amico che era con me a Radio Deejay e mi ha raccontato che si era creato uno spazio libero a Radio Capital e stavano facendo il mio nome e gli ho detto “potrebbe essere interessante, sì, parliamone.” Da lì è passato un po’ di tempo, dopodiché ho ricevuto messaggio da Linus, abbiamo parlato, ci siamo visti. A me la radio piaceva già, tanto è vero che ero già ascoltatore. Comunque Capital una radio che ho sempre ascoltato attentamente, e da lì è stato veramente un attimo poi trovare un accordo. Io ero ero lontano dai network da sette anni e mi ero ripromesso di starne ben lontano. Con questo non voglio dire nulla di male, attenzione, è stata una scelta mia personale per dei motivi miei che derivavano dall’ultima avventura che avevo fatto in un network, quindi mi ero detto basta. Però sai, Capital vuol dire il primo amore che ritorna, no? Il primo amore, parlo di di Radio Deejay che è dello stesso gruppo, vuol dire ritornare in una sede che è quella di via Massena, dove sono cresciuto e dove è stata la mia avventura più importante a livello radiofonico, per cui ritrovare tante persone, ritrovare tanti amici. Lavorare a Capital è come un ritorno a casa bellissimo, bellissimo e inaspettato. Poi, per me è un onore anche stare nello stesso programma di Luca De Gennaro e di di Mixo. Loro sono delle colonne della musica in Italia, ma delle colonne importantissime, imprescindibili, per cui arrivare dopo di loro e fare lo stesso programma per me, oltre che essere un onore, è anche una grossa responsabilità perché comunque devo mantenere l’attenzione degli ascoltatori alta e sapendo bene che gli ascoltatori di Capital sono ascoltatori musicalmente molto molto molto preparati».
Una delle cosa belle di Radio Capital è anche passare musica che non passa praticamente nessuno, giusto?
«È quello che mi è sempre piaciuto di Radio Capital, sai quando senti le radio in generale, senti i soliti 300 brani che ascolti dappertutto. Poi, qualcuno magari varia rispetto ad altri, ma di poco. In realtà, bene o male, sono quelli lì i classici che vengono messi. La cosa bella di Capital è che sì, ci sono anche quelli, ma sono talmente diluiti in mezzo ad altre cose bellissime, a volte dimenticate, che secondo me vanno riscoperte, vanno fatte ascoltare. Infatti il riscontro che abbiamo spesso e volentieri è proprio sulle chicche dimenticate».
Hai parlato di amici, hai citato Linus, in tutti questi anni c’è un collega o una collega con cui non sei riuscito a lavorare e ti piacerebbe farlo?
«Beh, sono tanti. Uno con cui mi piacerebbe lavorare, ma penso che sia abbastanza impossibile perché facciamo due cose diverse, Alessandro Milan di Radio 24. Io gli ho sempre esternato, lui lo sa, la mia ammirazione per la sua capacità di di parlare, di comunicare, di provocare. Per me è un maestro, onestamente. E poi uno e qua vado su un discorso un po’ triste, una delle persone con cui da anni si parlava di fare un programma insieme, ancora da quando eravamo a Virgin e, che non siamo mai riusciti a farlo, era Massimo Cotto. Stavamo iniziando delle collaborazioni non radiofoniche ma di altro tipo e però il sogno di fare un programma insieme c’era sempre stato. Peccato che non ci siamo riusciti. Quello mi sarebbe piaciuto davvero tanto».
100 anni di radio, se tu dovessi definire il nostro mezzo di comunicazione preferito, che frase o che parole useresti?
«Eh, beh, è un mezzo di comunicazione fondamentale ancora oggi, assolutamente fondamentale da cui non si può prescindere per avere una buona informazione, una buona comunicazione, in un mondo in cui siamo pieni, sui social soprattutto, ma anche in televisione, di notizie false. Io credo che la spontaneità dei conduttori radiofonici sia ancora la cosa più bella da ascoltare in questo momento a livello informativo e di comunicazione, di intrattenimento».
Il consiglio che daresti a chi si vuole approcciare al mondo della radio?
«Non è uno scherzo. Non pensate che mettervi davanti a un microfono e dire quattro sciocchezze voglia dire fare radio. Quando vedo certi personaggi che arrivano da altri da altri mezzi di comunicazione, soprattutto dai social in modo particolare, ma anche dalla televisione, a volte che prendono a sottogamba la radio, dico “Ok, ecco un altro che andrà a finire in niente”. Bisogna studiare, come in tutti i lavori, bisogna studiare. Anche la radio è fatta di grande studio, sempre e comunque lo studio sulla comunicazione, lo studio su come porsi davanti a un microfono, studio di come si vogliono impostare i discorsi, studio anche a livello informativo di tutto quello di cui tu vuoi parlare. Non puoi parlare dicendo in radio “Ah, credo che forse sì, mi sa che è successo quello”. No, tu devi essere preciso in quello che dici, perché allora l’approssimazione ce l’abbiamo tutti. Se io ti ascolto è perché tu mi dai delle notizie certe e sono sicuro che le hai verificate. Se non le hai verificate perdi credibilità. Io insegno anche radiofonia nelle scuole ormai da 4 anni, scuole fra l’altro che vanno dai licei fatti l’anno scorso alle elementari e medie che abbiamo fatto da 4 anni e che faremo ancora adesso. Ripartiremo con l’anno nuovo. E quello che insegniamo ai ragazzi è proprio questo, la comunicazione. come approcciarsi a un microfono e verificare sempre le notizie e incrociare le informazioni su internet. Lo diciamo anche ai ragazzi delle medie che già cominciano a usare ovviamente questo mezzo di ricerca perché è fondamentale. Non è uno scherzo fare radio, non è un gioco. Molti pensano sia così, ma non lo è».
Marco, grazie mille per essere stato con noi a Century Radio
«Grazie a te e a tutti i lettori di Recensiamo Musica».