Century Radio, intervista a Roberto Uggeri

Un secolo di voci, musica e storie che hanno fatto grande la radio, tra passato e attualità, davanti e dietro il microfono. A cura di Pio Russo
Benvenuti a “Century Radio“, la rubrica dedicata ai cento anni della radio. In questo spazio esploreremo l’affascinante mondo della radiofonia, non solo attraverso ciò che ascoltiamo, ma anche svelando cosa accade quando i microfoni si spengono. Tema del giorno: l’intervista a Roberto Uggeri.
Pio Russo racconta l’evoluzione e l’involuzione di un mezzo che ha segnato intere generazioni, portando musica, voci e storie nelle case di tutto il mondo. Dal fascino delle prime trasmissioni fino all’era del digitale, in un viaggio tra passato, presente e futuro della radiofonia.
Roberto Uggeri “100 anni, ma la radio è ancora una ragazzina”
Si definisce mediano della voce, gregario della parola, Roberto Uggeri: una delle voci storiche della radiofonia italiana. Tifoso del Fanfulla e, per “passione trasmessa”, del Milan, sono tante le sue esperienze radiofoniche. Attualmente è in onda su Radio Bruno e si è raccontato per Century Radio.
Ciao Roberto e benvenuto sulle “frequenze” di Century Radio
«Ciao a tutti, grazie a voi per l’invito!».
Quale emozione hai provato la prima volta dietro ad un microfono?
«È passato così tanto tempo che onestamente non lo ricordo. Rammento però che non volevo andare in onda perché ero molto timido. Mi sono avvicinato al giornale della mia città perché desideravo scrivere. Quando ho saputo che la redazione del quotidiano era anche quella della radio sono rimasto ma solo a patto che potessi restare dietro le quinte a occuparmi dei testi dei notiziari. Poi, vedendo altri ragazzi che andavano in onda, mi sono incuriosito e ho cominciato a registrare, di nascosto, per “vedere l’effetto che fa”, cit. Jannacci. Mi sentirono casualmente i responsabili della radio e mi invitarono a provarci in diretta. Da allora non ho più smesso. Avevo 16 anni, era il 1982».
La radio era quello che volevi fare da grande o è arrivata per caso?
«In parte ho già risposto… a sedici anni non avevo idea di cosa avrei fatto nella vita. Mi piaceva disegnare, leggere, scrivere… La radio è arrivata per caso ed è stata una passione improvvisa che dura ancora oggi».
In quarant’anni di carriera come, secondo te, si è evoluta la radio e quali invece i passi indietro?
«La radio è in continua evoluzione. È un mezzo che ha saputo adeguarsi ai cambiamenti tecnologici, di produzione e fruizione. Ho avuto la fortuna di vedere il passaggio dal vinile e dai nastri sino ai files, passando per DAT, minidisc, cd e computer; dai transistor al DAB, fino allo streaming. Quel che non è mai cambiato è il cuore e l’anima di chi la fa e questo è ciò che la rende sempre attuale, vicina a chi l’ascolta: l’umanità delle tante persone che ogni giorno lavorano per farne un medium agile e moderno. Passi indietro, onestamente, non ne vedo, anche perché mi piace guardare sempre avanti».
Qual è stato il momento più bello della tua carriera?
«Ce ne sono stati tanti. Sono stato molto fortunato e per questo sarò sempre grato alla radio: mi ha permesso di vivere facendo quel che mi piace. Ricordo, ad esempio, tanti incontri, da Henry Winkler – Fonzie di Happy Days – a Herbie Hancock fino a Sting e praticamente tutti i più grandi della musica italiana; i tanti concerti che ho avuto il privilegio di raccontare, nelle ‘cattedrali’ dei live, come l’Arena di Verona o San Siro, su tutti il concerto per Lady Diana da Wembley, con una carrellata di ‘monumenti’ inglesi del pop e del rock; le Olimpiadi da Londra; l’Isola dei Famosi dall’Honduras; i reportage di viaggi con lo staff di Donnavventura… e chissà quante altre cose dimentico. Vi dirò l’ultima occasione che mi ha molto emozionato: la radiocronaca del momento in cui è stato annunciato il nuovo Pontefice, Leone XIV. Ecco, raccontare alla gente quel che accade, in diretta, è sempre un bel momento».
Tu sei un accanito lettore di libri. Quali possono essere le similitudini tra radio e libri?
«Le parole, le storie, sono l’essenza di radio e libri. Almeno, forse io la vedo così perché quel che conta per me è comunicare e mi appassiono ai racconti. È attraverso le parole che stabiliamo un contatto tra noi. Le parole e le storie fanno riflettere e permettono un confronto, ci fanno crescere, ci aprono al prossimo: “Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!”, come diceva Nanni Moretti in Palombella rossa».
Tre canzoni che vorresti programmare in ogni tuo programma:
«Beh, in ogni programma mi sembra troppo e io non amo la ripetitività, ma diciamo che se devo pensare a tre pezzi che amo, sono: “Stop breakin down blues” di Robert Johnson nella versione di Eric Clapton; “So What” di Miles Davis e “Steppin’ Out” di Joe Jackson. Ma ce ne sarebbero mille altri… Georgy Porgy dei Toto, Tom Traubert’s Blues di Tom Waits, Dominoes di Syd Barrett nella versione di David Gilmour, Birdland dei Weather Report, vado avanti..?».
Qual è il tuo pensiero sulla radiovisione?
«Ho avuto la fortuna di vederla nascere e di farla fin dagli esordi. All’inizio ero scettico perché temevo potesse rompere un po’ la magia di quel che è stato definito “il teatro della mente”. Poi, facendola, mi sono convinto che non cambia nulla, almeno per noi in onda: in pochissimo tempo mi sono dimenticato della telecamera che mi inquadra e anche oggi non ci penso mai. In termini di risultati mi sembrano evidenti: ha portato ascolti a chi la avviata, tant’è che sempre più emittenti stanno aprendo il proprio canale tv. Quindi, come dicono negli Stati Uniti: “con i gusti del pubblico non si discute”».
C’è un artista che ti piacerebbe intervistare?
«Molti ma, come dicevo, la vita professionale è già stata molto generosa con me. Sono a posto così, grazie. Magari, qualche scrittore, come Daniele Mencarelli e Antonio Manzini due tra i miei autori italiani preferiti».
Cento anni di Radio, una parola o una frase per definirla:
«Sono solo i suoi primi cent’anni, è ancora una ragazzina»
Grazie per essere stato con noi…
«A voi per la chiacchierata».