giovedì 21 Novembre 2024

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C’era un Morandi che come me fu censurato in diretta Rai

Il rassicurante artista bolognese finì sotto la lente della censura. Motivo? Avrebbe messo a rischio l’alleanza con gli Usa

 

Negli anni sessanta il settore discografico era così florido che Sanremo non bastava a presentare le nuove proposte della canzone. Erano gli anni di ‘Canzonissima‘, ‘Un disco per l’estate‘, il ‘Cantagiro‘, il ‘Festival di Napoli‘ e, giustappunto, il Festival delle Rose‘, senza contare le fortunate kermesse rivolte ai debuttanti che in quegli anni si moltiplicavano in tutto il territorio, alla ricerca di una nuova Rita Pavone e più prosaicamente di un ritorno economico grazie agli indotti del turismo. Con la crisi del settore tutte chiusero i battenti, tranne il Festival della canzone italiana che, a tentoni, superò l’ostico scoglio degli anni di piombo, prima di rinvigorirsi nuovamente negli anni ’80.

 

C’era una svolta al Festival delle rose…

La terza (e penultima) edizione della kermesse ebbe una certa rilevanza per la massiccia presenza di proposte vicine alla musica d’oltremanica e d’oltreoceano. Tra gli artisti in gara Claudio Villa, Little Tony, Al Bano e Lucio Dalla, oltre a due gruppi debuttanti che faranno la storia della musica italiana, i Nomadi e i Pooh.

Il beat e la canzone di protesta entrano a gamba tesa nel rassicurante ambiente della musica leggera, creando qualche grattacapo ai discografici. Tra questi, Ennio Melis, direttore dell’RCA: ha saputo che, su quel palco, anche il suo pupillo Gianni Morandi sta per imbracciare una chitarra per contestare qualcuno o qualcosa. Nello specifico, gli Stati Uniti e la loro politica estera, laddove estera sta per militare. Dal 1955 era in corso la Guerra del Vietnam, efferato conflitto che porterà a milioni di perdite tra i civili.

“Morandi non può cantare una canzone così rivoluzionaria – avrebbe detto Melis secondo la ricostruzione dello stesso cantautore – La gente vuole un Gianni romantico, sorridente, l’eterno spensierato giovincello che si incontra sotto casa, non un indolente sobillatore. La contestazione la facessero altri!”.

Le parole di Melis non scalfiscono l’ineguagliabile energia del ragazzo di Monghidoro, entusiasta di quel brano scritto in dieci minuti da Franco Migliacci su musica di Mario Lusini. C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones… aveva i capelli lunghi, suonava ‘Help’ e ‘Ticket to ride’, è stato chiamato alle armi, e adesso ha qualche medaglia nel petto ma non vive più, quasi a riecheggiare “La ballata dell’eroe” di De André, un brano che smitizza la retorica nazionalista e militarista con due versi da antologia: «ora che è morto la patria si gloria / d’un altro eroe alla memoria»

I discografici non possono fare altro che limitare la vena polemica di Morandi, pubblicando il brano (magistralmente arrangiato da Ennio Morricone), in abbinamento a un pezzo maggiormente in linea con la sua produzione. La scelta cade su una brillante cover di “Solitary man”, “Se perdo anche te”, destinata a diventare in breve tempo una delle più note canzoni del suo repertorio.

Ma torniamo al Festival delle rose: all’Hotel Cavalieri Hilton di Roma, lussuoso teatro dell’evento, fervono i preparativi. Gli interpreti scaldano l’ugola, i macchinisti registrano gli attrezzi, gli operatori preparano le inquadrature e i censori di Mamma Rai tagliuzzano qua e là le opere ritenute sconvenienti. La “commissione d’ascolto” invita i Pooh a moderare la loro “Brennero ’66”, già scartata a Sanremo per la crudezza degli eventi narrati, gli attentati dei secessionisti in Tirolo (in verità appena evocati). Il brano ottiene il lasciapassare con un nuovo titolo, “Le campane del silenzio”, alleggerita del verso di maggiore impatto. I tagli, ovviamente, coinvolgono anche il brano di Morandi: deve perentoriamente sparire ogni riferimento alla politica degli USA. C’è già una soluzione: cantare al posto di Vietnam e Vietcong, Corfù e Cefalù, ma Morandi e Migliacci non ci stanno.

Cosa fare? Rischiano di essere oscurati in diretta tv e per loro si evoca addirittura il ritiro dei passaporti. Autore e interprete raggiungono l’intesa poco prima dell’ingresso in scena, in camerino. «Facciamo così. Invece che Vietnam e Vietcong, canterai: M’han detto vai ta-tatà e spara tatatà… tara-ta-ta-ta, tara-ta-ta-ta». Tutti avrebbero dovuto capire l’intervento della censura.

Arriva il momento. Si accendono le luci e il palco si riempie del brio di Morandi. L’orchestra dà l’attacco. Tutto secondo i piani: Beatles, Rolling Stones, capelli lunghi e tatatà. Ma alla ripresa del ritornello, la potenza del brano straripa gli argini delineati dalla commissione e l’artista bolognese si libera di ogni freno censorio: «Nel suo Paese non tornerà, adesso è morto nel Vietnam

La politica nostrana, come prevedibile, non gradì. Il “caso Morandi” finì al centro di un’interrogazione parlamentare. Gli artisti coinvolti, avversati dai conservatori, furono aiutati dalla sinistra, contraria al conflitto in corso e ancor di più al filoamericanismo, che in Italia stava toccando, come in questo caso, punte altissime. I paesi dell’URSS non mancarono di manifestare il loro apprezzamento alla canzone, come in questa cover dei Poyushchiye Gitary, definiti i “Beatles sovietici”

Ma la vera notorietà internazionale arrivò dopo l’interpretazione di Joan Baez. L’usignolo di Woodstock inserì C’era un ragazzo… nella scaletta del suo tour europeo del 1967, in compagnia di capolavori come “Yesterday” e “Blowin’ in the wind”. L’incisione di Morandi invece, partita in sordina tra i tentennamenti di Melis e la scure della Rai, raggiunse la vetta della classifica a febbraio dello stesso anno, venendo scalzata in seguito dalle nuove uscite sanremesi (da “Cuore matto” a “Ciao amore, ciao”).  Il brano divenne un successo commerciale oltre che un inno universale alla non violenza. Anche Melis stava capendo che gli “indolenti sobillatori” avrebbero canalizzato in musica il fermento giovanile. E la musica stava cambiando.