giovedì 21 Novembre 2024

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Ciao sono Vale: “Il dialogo è la cura per ogni forma di malessere” – INTERVISTA

A tu per tu con la giovane cantautrice lombarda, fuori con il nuovo singolo intitolato “Tre assassine”

A pochi mesi di distanza dalla nostra precedente intervista realizzata in occasione del lancio del singolo “Cliché”, ritroviamo con piacere Valeria Fusarri, in arte Ciao sono Vale, per parlare del nuovo inedito intitolato “Tre assassine”, brano che mette sotto una lente d’ingrandimento la problematica delle malattie mentali, con coscienza e sentimento. Il pezzo, scritto a quattro mani con sua sorella Simona e prodotto da Matteo Costanzo per Honiro Ent, è disponibile sulle piattaforme digitali dallo scorso 12 novembre e anticipa l’album d’esordio della giovane cantautrice classe ’98, la cui uscita è attesa per i prossimi mesi.

Ciao Valeria, bentrovata. Partirei da “Tre assassine”, un brano che mi ha molto colpito perché affronta una tematica importante e spesso sottovalutata. Trae spunto da un’esperienza che hai vissuto sulla tua pelle direttamente o indirettamente?

«E’ una storia che ho vissuto sulla mia pelle direttamente, non in prima persona ma per quanto riguarda una persona a me molto cara, una situazione che vivo quotidianamente, nel caso specifico si tratta di bipolarismo, da qui il titolo che si riferisce alle tre personalità che chi è affetto da questa patologia sviluppa, vale a dire: la propria, una più triste e l’altra esasperata. La canzone è nata da un testo e da un’idea partita da mia sorella, il concetto che abbiamo voluto affrontare insieme era quello di combattere le malattie mentali, patologie che in Italia vengono abbastanza sottovalutate. La malattia mentale è sempre stata giudicata e curata male, più che di medicinali, questo tipo di persone, ha bisogno di conforto, comprensione e tanto amore che, purtroppo, non è facile ricevere in questi casi».

Non comprendendo a fondo questo genere di disturbo della personalità, molte persone si allontanano e la persona affetta da questa patologia resta sola, abbandonata assieme ai suoi più stretti familiari, spesso e volentieri anche dagli stessi organi sanitari che trattano questi casi come le altre comuni malattie, somministrando farmaci. In questo caso, stando alla tua esperienza, cosa bisognerebbe fare nel concreto?

«Secondo il mio punto di vista il dialogo è veramente la cosa più importante per quanto riguarda qualsiasi tipo di malattia mentale. Io stessa soffro di depressione e di attacchi di panico da quando sono piccola, per cui so benissimo cosa vuol dire sentirsi soli e non capiti, il dialogo è la cosa che aiuta di più, perchè quando parli con un amico, una persona cara o qualcuno che ti dona la sua attenzione, lì riesci veramente a sfogarti, a sentirti compreso e capito da chi hai di fronte. Al di là delle cure psichiatriche, il dialogo e la comprensione restano le medicine migliori per cercare di fare stare meglio chi soffre di queste patologie. Non bisogna mai screditare queste persone, piuttosto mettersi nei panni di chi vive quotidianamente questo genere di disagio, capire che nella sua testa questi problemi appaiono come insormontabili e non cercare invano di sminuirli».

Pensi che questo genere di problemi siano stati ingigantiti dall’avvento della tecnologia e dalla profonda trasformazione che ha subito oggi la società?

«Questo tipo di malattie esistono da quando è nato il mondo, però la società in cui viviamo ci porta ad aggravare la situazione, con tutti questi messaggi che riceviamo attraverso la rete, dalle offese gratuite al bullismo psicologico, passando per chi non comprendendo tende a sminuire. In tal senso, il web ha peggiorato in tanti casi la comunicazione, ma sono dell’idea che da un altro punto di vista, invece, riesca a dare una mano perché favorisce anche la divulgazione di possibili rimedi, ci sono tanti forum in cui le persone possono confrontarsi e riescono a sentirsi più unite. Diciamo che i pro e i contro finiscono in parità, da una parte la tecnologia può aver aggravato, per tanti altri aspetti riesce a mandare comunque un messaggio positivo. C’è da dire che anche la medicina ha fatto passi da gigante, cinquant’anni fa le patologie non si distinguevano e ti chiudevano in manicomio, oggi si cercano delle cure diverse, anche se molte medicine vengono prescritte con troppa facilità e, in molti casi, ti portano a peggiorare la tua situazione fino ad azzerare le tue emozioni, rendendoti completamente assente. Io stessa l’ho provato sulla mia pelle, l’unico farmaco che mi aiuta realmente è il dialogo, il sentirmi compresa dalle persone».

Com’è stato affrontare per te un tema così importante? Hai avvertito un po’ il peso e la responsabilità nel musicare un argomento così delicato?

«Ad essere sincera, ogni mia canzone è frutto di una riflessione, il risultato di qualcosa che ho vissuto in prima persona sulla mia pelle, sinceramente non riuscirei a scrivere e parlare di qualcosa che non penso davvero. Per quanto riguarda questo argomento, è sicuramente un concetto difficile da raccontare, una situazione difficile da descrivere a chi non l’ha vissuta. Alla fine, insieme all’aiuto di mia sorella, credo che siamo riuscite a comunicare al meglio il nostro pensiero a riguardo, anzi, è stato anche liberatorio per noi, perché da una cosa brutta che fa star male, abbiamo cercato di trasformarla in un messaggio positivo, soprattutto per una persona che ha dei problemi e che in questa canzone può ritrovarsi, capire che c’è chi prova il suo stesso disagio e, magari, sentirsi meno sola».

Oggi come oggi, in un mondo in cui le canzoni si ascoltano distrattamente, in maniera sommaria e tutto scorre sempre più velocemente, la musica può essere ancora considerata un’ancora di salvezza?

«Secondo il mio punto di vista sì, magari si parte da una nicchia, da coloro che in prima persona hanno vissuto le stesse problematiche e hanno percepito il senso del brano, molti altri magari lo hanno ascoltato più superficialmente. Al giorno d’oggi, poche persone riescono a dare valore al testo di una canzone, perché ci si lascia distrarre dalla melodia e dal contorno sonoro, per me invece la scrittura è l’aspetto più importante. Sinceramente poco mi interessa quanto potrà girare questo pezzo, perché sono consapevole della difficoltà di parole che non arrivano in prima battuta. Sono certa che, prima o poi, qualcosa si possa muovere e gli artisti che portano avanti i contenuti possano ricevere un più meritato consenso, la mia speranza è che le canzoni con un significato profondo possano espandere il proprio bacino d’utenza».

Il testo ha un ruolo fondamentale ma, musicalmente parlando, c’è anche un’altra componente importante in “Tre assassine”, ovvero le sonorità innovative e molto contemporanee. Quale apporto ha dato il producer Matteo Costanzo al pezzo e come siete arrivati a questa veste sonora?

«Sinceramente parlando, quest’estate abbiamo cominciato a lavorare al mio primo album, focalizzandoci sia sulla scrittura che sulle basi, perché ho molte influenze musicali a cui tengo moltissimo. L’idea parte da me in linea con le parole e il significato della canzone, poi con il talento incredibile di Matteo abbiamo studiato come rappresentare al meglio ciò che avevo scritto. E’ un processo abbastanza spontaneo, nel caso specifico la stessa “Tre assassine” è venuta fuori facilmente, perché aveva già una sua quadratura e lui è riuscito subito a capire il significato di ciò che volevo esprimere, quindi è riuscito a donare la stessa potenza melodica alla base».

Anche l’album a cui stai lavorando andrà in questa direzione sonora?

«L’album è veramente vario e vasto, avrà piò o meno lo stesso tiro, nel senso che il genere sarà questo, un misto tra rap e pop che di certo non cambia. Non vedo l’ora che esca perché è davvero versatile, pieno di emozioni e di cose che ho vissuto insieme alle persone che mi stanno intorno, direi veramente una combo speciale. Ringrazio di cuore Matteo, credo che non lo lascerò mai andare come produttore perché ha concepito e sviluppato le mie esigenze musicali, lui è veramente forte».

Ti devo fare i complimenti Valeria perché hai appena ventuno anni, eppure i tuoi discorsi sono estremamente maturi, soprattutto se paragonati a quelli di molti tuoi coetanei. Come descriveresti la tua generazione?

«Ti ringrazio. Credo che la mia generazione sia divisa in due parti, da un lato ci sono ragazzi che sono molto interessati a tutto ciò che ci circonda, che lottano per i propri diritti e portano avanti ciò che hanno nel cuore. Poi, certo, c’è anche una percentuale di persone che hanno una mentalità un po’ più chiusa,  criticando e giudicando, ma non fanno niente per cercare di cambiare le cose. E’ un’epoca difficile, sicuramente la nostra generazione è bombardata mediaticamente da una serie di informazioni, spesso da esempi sbagliati, per cui rispetto al passato si nota di più una differenza, una netta spaccatura. Nei momenti più critici vengono fuori il carattere e la vera natura delle persone, questo delicato momento storico non può che evidenziarlo maggiormente».

Per concludere, la domanda più banale del mondo, in genere avrei dovuto fartela all’inizio, ma le cose “normali” non ci piacciono. Perché hai scelto come pseudonimo Ciao sono Vale?

«Semplicemente parlando è una sorta di slogan volto a sottolineare la semplicità d’animo che mi caratterizza, riconosco di scrivere dei testi abbastanza complicati da comprendere e di avere un aspetto abbastanza particolare, ma in realtà Ciao sono Vale è ciò che sono dentro, una sorta di presentazione semplice e diretta del mio animo».

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Nico Donvito

Nato a Milano nel 1986, è un giornalista attivo in ambito musicale. Attraverso il suo impegno professionale, tra interviste e recensioni, pone sempre al centro della sua narrazione la passione per la buona musica, per la scrittura e per l’arte del racconto. Nel 2022 ha scritto il libro "Sanremo il Festival – Dall’Italia del boom al rock dei Måneskin" (edito D’idee), seguito da "Canzoni nel cassetto" (edito Volo Libero), impreziosito dalla prefazione di Vincenzo Mollica, scritto a quattro mani con Marco Rettani. L'anno seguente, sempre in coppia con Rettani, firma "Ho vinto il Festival di Sanremo" (edito La Bussola), con introduzione curata da Amadeus e il racconto di trenta vincitori della rassegna canora. Tale opera si è aggiudicata il Premio letterario Gianni Ravera 2024.