Raccontiamo una tematica attraverso i testi delle canzoni
Viviamo ogni giorno ragionando, spesso involontariamente, secondo stereotipi. Facciamo riferimento, cioè, a modelli e comportamenti sociali convenzionali, che nascono da rigide opinioni, precostituite e generalizzate, tante volte tramandate nei secoli, intrecciate al pregiudizio e non supportate dall’esperienza diretta. Lo stereotipo ci fa pensare all’altro, ma anche a una cosa o a un luogo, in termini di semplificazione, mediante l’attribuzione di caratteristiche preconfezionate e fisse, che annientano la sua unicità e le qualità specifiche. Nasce anche dalla disinformazione, dalla sottocultura e dalla tendenza a categorizzare la realtà in modo distratto, acritico e semplicistico, finendo col concepirla come un prodotto seriale. Per questo, è necessario allenarsi a riconoscere le stereotipie e a guardarle con un’altra lente, secondo un punto di vista differente per costruire alternative di contrasto alla massificazione.
Analizziamo le donne cantate nel pop, perché, anche qui come nella storia, sono tra le persone più soggette a visioni stereotipate e pregiudizi, stigmatizzate in negativo con lo scopo di declassarle a livello sociale ed etichettate come fonte di tentazione, di peccato, di istigazione alla violenza, di magie e stregonerie. Se nella visione più classica, la donna di Drupi è “bella e strega Mi avveleni e non ti fermi mai Mi sconvolgi e mi appassioni Con le tue stregonerie Parli con il fuoco Fino a quando non ti brucerà“, ci sono canzoni che aprono dibattiti e clamori mediatici, anche per via di chi le canta, ma senza la forza di rompere con certe visioni stereotipate. Per esempio Junior Cally e la sua Gioia (un nome paradosso), che diventa per tutti “la strega che fa Shu-shulala!”; una di quelle “streghe libere di bere per tutta la noche (ya,ya) Beviamo, cantiamo, corriamo, moriamo veloce (ya, ya) Ci bruciano in piazza, ma tanto lo sai che resuscitiamo (ya, ya)”. Quello che può sembrare l’inno delle libertà di Gioia prosegue con una serie di considerazioni negative, “beve poi ingoia Balla mezza nuda, dopo te la da (…) fa la troia Sì, per la gioia di mamma e papà“, e si fa pericolosa provocazione, “questa frate non sa cosa dice Porca troia, quanto cazzo chiacchera?“. L’uso del pronome dimostrativo “questa”, in forma dispregiativa, fa di Gioia una cosa inanimata, bersaglio di una conseguenza tanto estrema quanto naturale, “l’ho ammazzata, le ho strappato la borsa“.
Vivere per stereotipi, può degenerare e sfociare in comportamento patologico, financo criminale? Non sempre, per fortuna, ma una cosa è certa: nelle viscere dell’immaginario collettivo, anche quello apparentemente più innocuo, si attivano sentimenti innati nei confronti delle streghe, quasi sempre, donne in genere molto vecchie e di brutto aspetto. Così Lando Fiorini, con il testo-racconto “m’hanno detto che“, ci narra la leggenda secondo cui “le streghe So’ vecchiacce brutte assai (…) che a ‘na strega Si je metti sulla porta Una scopa mezza morta scappa via e nun torna più (…) Quanno vanno alla funzione S’accavalleno a’n bastone e comincieno a vola’“.
Solitamente le donne, additate come streghe, appartengono a ceti sociali bassi, tranne qualche eccezione di nobildonna, e fanno le prostitute, le levatrici o le guaritrici. La lingua dialettale del testo ci fa stare in mezzo al popolo e parlare come le protagoniste della canzone. E ancora Mannarino, “Amuri miu, a vita è n’estate Lassa stari i corvi lassù Ca nun c’è Dio, ma c’è un cantu di streghe” che si fa tentazione “e n’tu lettu c’è un diamante Che ho nascosto e u poi pigghiari sulu tu“. Perseguitate e messe al rogo, durante il Medioevo e negli anni dell’Inquisizione, le streghe sono sempre state giudicate come donne da far tacere, fino a cancellarle, perché troppo consapevoli delle proprie capacità. Lo conferma quell'”io sono il luogo selvaggio Sono la creazione La luna, il buio, e il mistero Io sono fatta così” di Adèl Tirant insieme alla certezza futura che una strega non morirà mai, anzi “continuerò a cantare Continuerò a ballare E dal mio ventre libero Partorirò parole“. Si tratta di una canzone manifesto che, rivolgendosi direttamente all’interlocutore, lo invita a non temere, “tu non aver paura La mia magia ti cura Guarisce e non ferisce E non ti ucciderà“. Quel “tu” intenzionale invita a riconsiderare la personale visione verso una strega, che anzi “ti mostrerò la grazia Pazienza e la saggezza“; come in una circolarità, ritorna a parlare di sé in prima persona e chiude con “io sono la bellezza E non ne morirai“.
Ha il sapore della riscossa l’apertura della prima strofa nelle Bambole di pezza con “tremate che le streghe son tornate Ammaliando per essere adorate“. Suona, in effetti, come uno slogan di sirene dalle seducenti melodie e di alchimiste nelle follie amorose, da cui non si può fuggire per un “Filtro d’amore mi stringe il cuore” e sotto il giogo dell'”ipnotico lo sguardo incantatore”. Di nuovo, gli elementi stereotipati della strega (voce, sguardo ammaliante e azione magica) accanto a un pizzico di moderna sfrontatezza in quel “fuman marija ed erbe prelibate” mentre invitano “se vuoi volare lasciati andare Tu vieni qua il viaggio può iniziare“.
Finalmente, a vincere mille stereotipi, è la dolcezza consolatoria degli Afterhours, quando cantano che “orchi e streghe sono soli Non verranno a disturbare Orchi e streghe sono soli E io invece ora ho te Dormi hai voglia di sognare Bimba fallo anche per me“. Un testo poetico che insegna a non temere, perché le paure sono solitarie e niente possono rispetto alla potenza del bene, che unisce nella tenerezza delle notti. Protetti, possiamo dormire e sognare, forti contro i giganti soli dell’immaginazione sociale più distruttiva. Se proprio devo immaginare una strega, la voglio come Vasco Rossi, e con “chi dice è una strega, tanto lei se ne frega (…) Ai giudizi degli altri non fa neanche una piega (…) Fa l’amore per gioco E le piace anche poco Se conviene fa finta, ma in fondo la testa Non la perde mai“. Libera nel pensiero e nelle azioni, distaccata dalle cose come dovrebbero essere secondo gli altri; presa in un volo in cui non serve alcuna scopa e senza il rischio di essere immolata per aver scelto la via dell’autonomia, delle passioni o del dissenso.
Francesco Penta
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