giovedì 21 Novembre 2024

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‘Come se io non fossi più io’ – Sulle demenze, tre canzoni

Come i testi delle canzoni hanno raccontato il tema della demenza

Guardo dall’alto: da qui, vedo l’insieme e ricerco i particolari; da qui, posso evocare ricordi e rileggere la vita, ma se una nebbia dovesse avvolgermi fino a risucchiare ogni dettaglio, cosa resterebbe di ciò che ho vissuto? In questo articolo, non parleremo della dimenticanza, ma della perdita irreversibile e patologica che caratterizza le demenze, con cui si assiste a un indebolimento delle facoltà mentali, causato dalla degenerazione e/o delle cellule cerebrali. Le demenze comportano un’evidente compromissione della memoria e/o l’alterazione della funzione cognitiva, del linguaggio, delle abilità prassiche ed esecutive, del riconoscimento di persone/oggetti e della loro fruizione.

Su questo delicato argomento, esistono canzoni che ci permettono di entrare in un dimensione intima con una realtà, che non può lasciare indifferenti, anche quando esterna alla nostra vita. “Non ti scordare di volermi bene” di Lorenzo Baglioni coglie le caratteristiche salienti della demenza, sottolineandone l’imprevedibilità, con una locuzione avverbiale di tempo “e poi un giorno la mente si aprì Come si apre un portone Soltanto a metà, e Cominciarono a uscire le facce Le storie, i cognomi e le età”. Cambiamenti che generano paure profonde nelle persone più vicine, così “io ho solo paura tu possa scordarti di me Non ti scordare di volermi bene (…) E adesso che a malapena ti ricordi il tuo nome Ti chiamo <Nonna> e tu mi guardi come a dire: <Ma come?>”.  Se non sai più chi sei, non conta più dove sei e il tempo che vivi, così “gli anni non hanno più peso, come se fossero piume E i minuti, minuti che diventano ore E fatichi e ti sforzi, Dio quanto dolore A trovare le sillabe delle parole”. Cosa può fare chi è accanto alla persona ammalata? Trovare la forza per andare oltre il buio e, dato “che il nero è somma di ogni colore”, decidere che “ti resto accanto con la mano e mi basta così (…) E non importa per quante volte dovrò rispondere alle stesse domande, le stesse Chi sei? Che ore sono? Ti sposi? E il nonno dov’è?”. C’è uno scarto anagrafico e generazionale tra nonna e nipote, che li porta ad avere una posizione asimmetrica tale da  permettere di vedere, più facilmente, una via possibile per affrontare la realtà.

Diversamente dall’ultimo singolo di Leo Pari, “Roma Est”, dove la demenza di una madre viene raccontata attraverso gli occhi insonni e sofferenti di un figlio, che continuo a crescere” nonostante tutto, “e ad andare avanti col mio disordine e con le mie angosce con i problemi di tutti quanti e con mia madre che non mi riconosce”. La perdita del Sé non riguarda soltanto la persona ammalata, ma coinvolge il familiare vicino, forse l’unico, costretto a prendere contatto anche con certe amare consapevolezze personali: “il tempo passa e sono un po’ più vecchio chi è questo signore nello specchio che non conosce un modo per stare meglio ma riesco solo a stare sveglio di notte”. C’è un ‘Io-adulto’ che “continuo a trascinarmi avanti sorrido e faccio finta di niente con i problemi di tutti i giorni” e un ‘Io-bambino’ che ha “paura di crescere paura della gente”. Oltre questo dualismo, esiste la dimensione del “quando siamo soli”, in cui si attivano sentimenti talmente viscerali e divisivi, che “a volte io mi mangerei le mani a volte ancora ho bisogno di te”. In questa solitudine, due persone vicine si ricercano in una realtà spazio-temporale non convergente, dove il bizzarro e il reale si scontrano più che incontrarsi, per cui se per la madre “ci salveranno quelle astronavi”, per il figlio “ma sono solo le luci di Roma Est”. Ancora, convive nel figlio un fragile ‘Io-adulto’, non consapevole di ciò che prova in amore, e un più sicuro ‘Io-bambino’, che “ho troppo bisogno di te”, anche in quelle veglie notturne, che gli faranno maturare “quanto siamo soli, quando siamo soli”.

Di fronte all’Alzheimer, pure “Ricordi” dei Pinguini Tattici Nucleari, a suggerirci la vicinanza fisica come antidoto al dolore; una presenza in cui “io ti terrò la mano e tu tienimi l’anima E pure se non sai chi sono, non lasciarla mai Vedi, ci sono dei ricordi che mi devi Sei grande, ma ti chiamo ancora baby”. Così, capiterà che “ti guardo mentre dormi Ma solo ieri c’eri, nei giorni neri Quelli che piove troppo forte per stare in piedi E fottevamo anche la morte volando leggeri”, come può fare perfino una canzone, quando parla di spine: diventare cura dentro la vita.

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Francesco Penta

Appassionato della parola in tutte le sue forme; prediligo, in particolar modo, la poesia a schema metrico libero. Strizzo l'occhio all'ironico, all'onirico e al bizzarro. Insieme alla musica sia la parola. Dopo la musica si ascolti il silenzio; da questo "vuoto sonoro" nasca un nuovo concerto.