“Dalla A alla Z”: B come Franco Battiato

Dalla A alla Z - Franco Battiato

Dal debutto ai grandi successi: i protagonisti della scena nazionale e internazionale, uno per lettera. Oggi proseguiamo dalla B di Franco Battiato. A cura di Francesco Costa

La musica è fatta di storie, di viaggi che attraversano generazioni e influenzano il panorama culturale del proprio tempo. “Dalla A alla Z” è la rubrica che ripercorre le carriere degli artisti più iconici della scena italiana e internazionale, raccontando le loro origini, i primi passi, le sfide e i successi che li hanno consacrati. Oggi proseguiamo con la lettera B, B come Franco Battiato.

Un percorso che parte dagli esordi e arriva fino ai giorni nostri, tra aneddoti, evoluzioni stilistiche e curiosità che hanno segnato il loro cammino artistico. A cura di Francesco Costa, questa rubrica si propone di esplorare in profondità il talento, la determinazione e l’unicità di ogni singolo artista, analizzando l’impatto che ciascuno ha avuto sulla musica e sul pubblico.

“Dalla A alla Z”: B come Franco Battiato

Ammaliandoci con le note della sua musica irresistibilmente pop, ci ha fatto cantare di contrabbandieri macedoni, zingare del deserto e profughi afgani. Ascoltarlo con attenzione significa arricchirsi culturalmente.

Quante volte, ballando sulle sue canzoni più iconiche, mi sono trovato a porgermi i quesiti più assurdi. Ma perché ci sono dei gesuiti vestiti da bonzi alla corte degli imperatori della dinastia dei Ming? Cos’è il Katakali? Tornerà effettivamente l’era del cinghiale bianco?

Domande che probabilmente non mi sarei mai fatto. Ma lui, con questi testi così criptici, è anche lo stesso in grado di farci piangere fiumi di lacrime tutte le volte che pensiamo a qualcuno di speciale e gli dedichiamo “La cura”. Il protagonista della puntata di oggi è Franco Battiato. B come Battiato.

Fino a quando non saremo liberi, torneremo ancora, più volte, a questa vita terrena. Perché l’esistenza è ciclica e si ripete fino a quando l’anima non sarà del tutto libera. È questo il senso di “Torneremo ancora”, un brano di Battiato del 2019, l’ultimo che ha registrato. Poco più di un anno e mezzo dopo, il 18 maggio 2021, si è spento nella sua casa di Milo, paesino alle pendici dell’Etna a cui era legatissimo. Da tempo soffriva di una malattia degenerativa e quando ha scritto l’ultima canzone già sapeva che il suo tempo sarebbe stato limitato. Ma invece di buttarsi giù, ha radunato tutte le sue energie e le ha messe in nota per donarsi e donarci un dolce regalo prima di congedarsi. Se Franco Califano ha fatto scrivere sulla sua lapide che non esclude il ritorno, il Maestro di questo ritorno ne era convinto ed è in questo modo che ha sconfitto la morte. Andandosene così, in un giorno di primavera. Ed è sempre in un giorno di primavera che 76 anni prima è comparso per la prima volta su questo pianeta.

Battiato nasce in un paesino della provincia di Catania che smette di esistere nel giro di poco. Papà camionista e mamma sarta, cresce in una casa senza libri, in un contesto privo di opportunità per appassionarsi all’arte. Una casa con poca cultura e, paradossalmente, forse proprio per questo sviluppa una grande fame di sapienza. In una terra immobile e lenta, Francesco è animato da una curiosità dinamica e ritmata che lo porta ad avvicinarsi alla musica. Inizia a suonare la chitarra da autodidatta e vince anche un piccolo premio a 11 anni.

Pochi anni dopo, scopre anche un altro elemento che lo accompagnerà per sempre: quello della spiritualità. È sul sagrato della Chiesa Madre di Riposto, che diventa per lui un po’ come la via di Damasco per San Paolo, che si rende conto dell’esistenza di un mondo oltre al mondo di cui facciamo esperienza. Si avvicina alla religiosità orientale di cui parlerà in tutte le sue canzoni, perché Francesco non lo sa ancora, ma di mestiere farà l’artista. E così, appena terminati gli studi, parte all’avventura senza lasciarsi bloccare dall’ideale dell’ostrica. Si stacca dal suo scoglio e lascia la Sicilia per approdare a Roma e poi a Milano dove inizia la sua lunga carriera.

Ad accoglierlo trova una fitta nebbia che forse non aveva mai visto prima di allora. Ma la brulicante e frenetica Milano corre veloce come i suoi pensieri, è per questo che si ambienta subito e lo fa incontrando il mondo del cabaret. Si lascia ispirare da artisti come Giorgio Gaber con cui diventa amico e scopre la sua nuova identità, scopre Franco. Ed è sempre Gaber a introdurlo nell’ambiente discografico e televisivo. Siamo nel 1967. Mancano ancora molti anni prima del boom, ma il Maestro capisce presto che non ama particolarmente stare sotto i riflettori. Se ne accorge nel ’70. Con il suo gruppo, gli Osage Tribe, in scena si dipinge la faccia di bianco. Un giorno, l’art director Gianni Sassi gli chiede di fargli delle foto. Lui si lascia immortalare ignaro del fatto che, nel giro di poche settimane, ritroverà quelle sue immagini sui cartelloni pubblicitari di tutta la città mentre pubblicizza, suo malgrado, un brand di divani.

Non lo sopporta proprio il fatto che tutti lo vedano, un paradosso se pensiamo alla fama che lo travolgerà. Ma questo è indice del complicato rapporto di Franco con il successo. Nell’arco di dieci anni diventa il primo italiano a superare il milione di copie con uno degli album più iconici della nostra musica, “La voce del padrone”, e se il 1981 e il 1982 sono due anni di straordinarie soddisfazioni dal punto di vista professionale, per quanto riguarda il privato non è la stessa cosa. «Ero in Versilia, mi svegliai all’improvviso, mi ritrovai i fan a scattare foto sul ciglio del letto. Ero assediato e alla fama reagivo con turbamento. Che volevano da me? Non lo capivo», racconterà più avanti in un’intervista. Tutta questa popolarità gli fa perdere la bussola, gli fa perdere anche il famoso centro di gravità permanente dell’omonima canzone, la sua hit più amata. Come dichiarerà qualche decennio dopo al giornalista Pollicelli, voleva mollare tutto. Pensate che per ritrovarsi, il Maestro ha bisogno di fare un album che venda poche copie. Ed effettivamente, con il flop di disco “L’arca di Noè”, ritorna in sé. Ai successi che cantano tutti, Franco alterna la sperimentazione. La sperimentazione da cui tutto era

partito nella sua prima fase musicale, quella che va dal 1972 al 1978. Proprio in quegli anni in cui era sui cartelli di Milano, pubblica il primo album “Fetus”. È la sua prima creazione edita e ha una strumentazione talmente elettronica da risultare inedita. Così come è inedito il suo coraggio di affrontare temi difficili come l’inquinamento in “Pollution” del ’73. Cominciamo a intravedere il Battiato che sarà anche nel lustro successivo quando esce con dischi che magari hanno anche solo una o due canzoni, senza voce dalla durata di mezz’ora l’una. Dischi che ovviamente nessuno si compra. Poi l’incontro che ti cambia la vita.

Nel 1977, conosce il violinista e compositore Giusto Pio con cui nascono oltre cento brani tra cui i più famosi come “Bandiera bianca” e “Cuccuruccucù”. Con l’ardore che l’ha sempre contraddistinto, Franco abbandona gli esercizi di stile e scommette di poter scrivere anche pezzi di successo. Due anni dopo, arrangia con Pio “L’era del cinghiale bianco”, un album di musica leggera. Si fa per dire; perché anche se i brani si fanno cantare, l’artista ci inserisce tutto il suo mondo fatto di misticismo e sagace ironia. Nella title track si parla di una signora che vende corpi astrali, una critica al consumismo che non tutti riescono a cogliere. Allo stesso modo, non tutti capiscono che si augura in questo pezzo il ritorno a un’età dell’oro perduta. Ma anche se non lo comprendono, a partire da questa evoluzione pop, lo amano.

Scommessa vinta, con “La voce del padrone” dell’81 rimane in cima alle classifiche per quasi cinque mesi. «Una ragazza di quindici anni mi ha scritto dicendo che non le frega niente di quello che dico, che comunque le piace da pazzi. Per me questo è il massimo, perché non voglio dire niente, oppure tutto». Il punto è proprio questo. La gente non capisce sempre quello che dice, la gente capisce lui e apprezza il suo pop intelligente e contaminato. In “Sentimiento nuevo” richiama addirittura anche l’opera per raccontare in modo sublime l’amore erotico. Esplode il fenomeno Battiato e tutti ballano su canzoni che affrontano anche temi impegnati come la tv politicizzata in “Bandiera bianca”, tema che in questa fase in cui si parla di Tele Meloni torna attualissimo.

Ma il Maestro non vuole solo far ballare e lo dimostra a più riprese durante la sua lunga carriera. Nel 1989 si commuove talmente tanto durante un’esecuzione di “E ti vengo a cercare” da doversi interrompere, davanti a lui ad ascoltarlo c’è Papa Giovanni Paolo II. Ma è con “La cura”, in cui descriveva la musica come potere terapeutico, che invece fa piangere tutti noi ogni volta che la ascoltiamo e mette a segno un altro grande risultato, il pezzo viene premiato come “Canzone italiana dell’anno” nel 1997. A partire da questo momento, dopo quindici anni sulla cresta dell’onda, capisce che può permettersi di osare e tornano quelle sperimentazioni da cui tutto era partito. Avverte l’esigenza di un ritorno alle origini e infatti inizia a spendere sempre più tempo nella sua Sicilia fino a quando non deciderà di trasferirsi definitamente a Villa Grazia, la residenza di Milo in cui rimarrà fino alla fine dei suoi giorni.

Dopo un lungo peregrinare, Battiato torna all’ovile, pervaso da un monito sorrentiniano che lo invita a non disunirsi rispetto alle sue radici. Radici che non abbandona mai del tutto come quando incontra Giuni Russo e cantano in siciliano “Strade parallele”. Con la troppo spesso dimenticata artista conterranea, Franco sviluppa una collaborazione proficua. Come si può facilmente intuire dal testo, c’è anche lui dietro il successo di “Un’estate al mare”. Così come c’è sempre lui dietro la vittoria a Sanremo di Alice con “Per Elisa”.

Ed è proprio con Alice che nel 1984 rappresenta l’Italia all’Eurovision Song Contest e il brano “I treni di Tozeur” vola nelle vendite. Pensate che quella canzone era stata scartata dal Festival e infatti Franco non tenterà più di partecipare alla kermesse fino al 2011 quando accompagnerà sul palco dell’Ariston Luca Madonia in “L’alieno”. Che poi alla fine Battiato è un po’ come un alieno, ha vissuto sempre ai margini di una vita vera. Profondamente sensibile, ma capace anche di distaccarsi e di narrare la realtà come un attento osservatore esterno. Legato alla terra, ma anche al cielo che raggiungeva con la sua spiritualità così sentita.

Chissà, magari è davvero tornato in vita come diceva che sarebbe successo in quell’ultima canzone. Ma a me piace anche immaginarlo così, ancora seduto su quella sedia invisibile della copertina del suo disco più celebre, avvolto tra le palme, che ci osserva senza mai giudicarci. Se non conoscete a fondo Battiato, il mio consiglio è googlare di tutto quello che non capite dei suoi testi. E vi ritroverete come me a scoprire che il gesuita vestito da bonzo davanti all’imperatore cinese è esistito davvero ed è l’italiano Matteo Ricci, che il katakali è una forma di teatro danza indiana e che l’era del cinghiale bianco non è ancora tornata e probabilmente non ritornerà più. Ma di certo c’è una cosa che, pur cambiando forma, tornerà. E questa cosa siamo noi perché l’esistenza è ciclica, questa è l’ultima cosa che ha voluto insegnarci Franco Battiato. Finché non saremo liberi.

Scritto da Francesco Costa
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