“Dalla A alla Z”: B come Loredana Bertè

Dal debutto ai grandi successi: la vita e la musica dei protagonisti della scena, uno per lettera. Oggi proseguiamo dalla B come Loredana Bertè. A cura di Francesco Costa
La musica è fatta di storie, di viaggi che attraversano generazioni e influenzano il panorama culturale del proprio tempo. “Dalla A alla Z” è la rubrica che ripercorre le carriere degli artisti più iconici della scena italiana e internazionale, raccontando le loro origini, i primi passi, le sfide e i successi che li hanno consacrati. Oggi proseguiamo dalla B, B come Loredana Bertè.
Un percorso che parte dagli esordi e arriva fino ai giorni nostri, tra aneddoti, evoluzioni stilistiche e curiosità che hanno segnato il loro cammino artistico. A cura di Francesco Costa, questa rubrica si propone di esplorare in profondità il talento, la determinazione e l’unicità di ogni singolo artista, analizzando l’impatto che ciascuno ha avuto sulla musica e sul pubblico.
“Dalla A alla Z”: B come Loredana Bertè
Con la foto di Che Guevara, va a letto la mattina incazzata come prima perché per lei la guerra non è mai finita. Sfacciata e irriverente come la sua iconica chioma blu, l’artista della puntata di oggi è un capo branco in mezzo alle iene che ti fa sentire il graffio lungo la schiena. Padre delle sue carezze, madre delle sue esperienze, è sopravvissuta a tutti gli urti della vita. La sua anima rotola e scricchiola, ma nonostante tutto non vuole andar via. Il suo nome inizia con la lettera B, B come Loredana Bertè.
La ricordo come se non fosse trascorso già più di un anno quella rovente serata di fine agosto all’Esedra del Palazzo Te di Mantova. Più di quattromila occhi in attesa di farsi spettinare dalla sua proverbiale grinta, ma i minuti passano e lei non appare. Ricordo l’arrivo, le scuse, il sudore sulla fronte. Ricordo il passo incerto, provocato dai cali di pressione che da tutto il giorno la tormentano. Ma soprattutto ricordo il graffio profondo e animalesco, il ruggito che si diffonde potente e che nessun malessere riesce a fermare sulle note di “J’adore Venice”, versione indimenticabile di un pezzo di Fossati che nello stesso anno crea per Loredana il suo successo più grande. Siamo nel 1982 quando, vestita da sposa con tanto di caduta finale sul palco dell’Arena, vince la categoria donne del Festivalbar con “Non sono una signora”. Una canzone con un ritornello potentissimo che vende mezzo milione di copie e rappresenta perfettamente la sua interprete grazie a un testo schietto a sincero.
E se è un volo a planare per essere ricordati qui, lei si libra nell’aria memorabile come un razzo. Sono gli anni del suo boom che ottiene senza partecipare a Sanremo. Al primo Festival atterra nell’86, anche questa volta veste un abito da sposa che nel tempo è diventato più nero della sua rabbia. In gara con “Re”, con le sue performance femministe dissacra il matrimonio e abbatte finalmente l’immagine patriarcale della maternità: «Volevo dimostrare che una donna quando è incinta non è malata ma è ancora più forte». Lo scandalo è servito e in Italia non si parla di altro se non del suo finto pancione. Giusto il tempo di pubblicarle la raccolta “Fotografando…i miei successi” e la CBS rompe il contratto discografico con lei nella sua fase di maggior splendore.
Interrotta la relazione e lo sposalizio artistico con Mario Lavezzi, nell’arco di tre anni, vede la luce un trittico di album particolarmente riusciti, tutti prodotti da Fossati a partire dal pop sofisticato e internazionale di quello che Rolling Stones definisce uno dei cento dischi più belli in Italia:“Traslocando”. Al suo interno, diverse tracce composte dal nuovo collaboratore di fiducia come “Stare fuori” e “I ragazzi di qui”, lato b del singolo “Per i tuoi occhi”. Poco più di un anno dopo, nel dicembre del 1983, vuole crederci che il cuore è ancora vivo (da “Così ti scrivo”) ed è la volta di “Jazz”. Un altro disco in cui la sua identità artistica è particolarmente a fuoco e si concede il lusso di svelare il suo lato più cantautorale: gli ombrelloni aperti, le discoteche piene di bugie e la solitudine che arriva all’improvviso come il vento che agita, come “Il mare d’inverno”. Dal dramma, scritto da Ruggeri, di questo cult si passa alle canzoni più ironiche. «Me ne vado di qua, andrò a lavorare in banca, la mia vita cambierò», canta in “Ho chiuso con il rock n roll”.
Nello stesso pezzo, afferma che per fermare la pioggia basta ballare in centomila. Ma la notte è cattiva, ogni volta ci prende così e può capitare arrivi “Una sera che piove”. A fare da compagnia c’è la radio sempre accesa che nell’84 suona le tracce di “Savoir Faire”, ultimo suo disco prodotto da Fossati, che contiene la riuscitissima cover di un pezzo di Tenco, “Ragazzo mio”. È etichettato come album di cover anche quello del 2016 in cui rielabora le sue hit in duetto con colleghe del calibro di Fiorella Mannoia, “Amici non ne ho… ma amiche sì!”, anticipato dall’inedito “È andata così” scritto da Ligabue che nel 2021 torna a collaborare con lei in “Ho smesso di tacere” per mettere in parole un altro trauma vissuto da Bertè, uno stupro che ricorda dolorosamente per spronare tutte le donne vittime di violenza a trovare il coraggio di denunciare. A ispirare il titolo della raccolta è “Amici non ne ho” che presenta al Festival del ‘94 in cui racconta diretta il tentato suicidio, avvenuto durante il tormentato matrimonio con Borg.
Trent’anni dopo, su quello stesso palco, ripropone la cover del brano di Tenco in duetto con Venerus che suona la chitarra. Il 2024 è un anno di grande successo per Loredana che conquista proprio tutti grazie al pop rock di “Pazza”. Settimo posto a Sanremo e disco di platino per un inno all’amor proprio a cui segue pochi mesi dopo “Bestiale”, il radiofonico feat con gli Eiffel 65. In questo anno di luce colleziona una standing ovation dietro l’altra con un tour magistrale in tutta la penisola e con la raccolta “Ribelle”. Tutto questo per celebrare i primi cinquant’anni di carriera.
Irrompere nudi tra la folla, questo il significato di “Streaking”, il suo primissimo lp uscito nel ’74 per poi essere subito dopo censurato e ritirato dal mercato perché nelle foto interne al disco, Bertè è completamente nuda. Il concept album sperimentale – che rivela già la sua roboante trasgressione – arriva dopo anni molto intensi. I drammi di un’infanzia e un’adolescenza vissute nella morsa violenta di un “Padre padrone” che non è un “Padre davvero” (entrambe tracce contenute nell’album “Un pettirosso da combattimento” pubblicato un anno dopo aver raccontato per la prima volta tutti i soprusi del passato), la fuga a Roma con la madre e le sorelle, il primo album di Mimì. E poi i suoi provini come soubrette, le commedie musicali, l’inizio del suo viaggio nel mondo dello spettacolo a partire dal mitico Piper. È lì che conosce Renato Zero e insieme iniziano a esibirsi addirittura come mimi prima di litigare e riabbracciarsi soltanto ventotto anni dopo.
In quel disco dell’esordio, ci sono due costanti della sua arte: il femminismo e le provocazioni. Fil rouge delle tracce è il tema sessuale che riscontriamo in “Volevi un amore grande” e “Fare l’amore” per poi esplodere paonazzo al termine del brano “Il tuo palcoscenico” in cui grida la parola “Ca**o”. L’anno dopo, sforna il suo primo successo, un pezzo cult della nostra canzone, una ballata rock intensa contro l’oggettificazione femminile da urlare a pieni polmoni: “Sei bellissima”. Anche in questo caso viene censurata, eppure prosegue a testa alta. Piuttosto che schiava del sistema, “Meglio libera”, canzone estratta dal secondo album “Normale o super” del ’76 a cui segue presto il terzo, “TIR”. Ma il botto per un suo lp la travolge nel 1979 con “Bandabertè”, introdotto dall’indimenticabile “Dedicato”, forse la canzone che interpreta meglio in assoluto. A partire da quel disco, cambia tutto. È grazie a lei se l’Italia si avvicina ai marciapiedi dove è vero quel che vedi e si lascia contagiare dalla rivoluzione reggae con la hit “E la luna bussò”, accompagnata dal lato B della sensuale “Folle città”.
Il reggae lo riprende anche in alcuni dei successi più recenti dopo il suo ritorno alla fama – ottenuto grazie ai programmi tv a cui partecipa – come in “Non ti dico no”, il tormentone con i Boomdabash (che incontra anche nel 2025 sempre in estate per “Una stupida scusa”), e “Che sogno incredibile” con Emma del 2021. A seguirla nel debutto marleyano c’è lo zampino di Lavezzi che produce per lei anche il funky di “In alto mare”, pezzo immortale presente nell’album “LoredanabertÈ”. Nel titolo, riprende il suo nome come nel penultimo album – quello prima di “Manifesto” del 2021 che la vede duettare con rapper da “Lacrime in limousine” con Fedez a “Donne di ferro” con Jax – “LiBertè” del 2018 che, complici singoli molto ballabili come “Maledetto luna park”, ottiene il disco d’oro. Ma gioca con il suo nome anche nel precedente disco di inediti (escluse le raccolte e le sanremesi “Musica e parole” del 2008 e “Respirare” con Gigi D’Alessio del 2012), “Babybertè” del 2005. Al suo interno, un brano profondo e commovente.
«All’amore dato, dato senza riserve. Al cuore tuo, spezzato per sempre», canta in “Mufida” e il cuore torna a quella sera di maggio che stringe il cuore e impedisce il passaggio anche al dolore (da “Zona venerdì” del ’97), quella sera di trent’anni fa in cui muore Mimì. Trafitta dall’indifferenza, uccisa da gente pia e credente che lancia anatemi contro i gatti neri. Da quel momento, per lei la vita si fa sempre più dura. È ancora fresca nella sua memoria la partecipazione al Festival con la sorella sulle note di “Stiamo come stiamo” quando nel 2019, tutto il pubblico dell’Ariston si alza per lei, contrariato dall’esclusione dal podio della sua hit “Cosa ti aspetti da me”.
Potrebbe sembrare sciocco come pensiero, ma mi piace immaginare che tra le centinaia di persone in piedi ci sia anche Mimì, orgogliosa del ritrovato successo di un’artista che non ha mai rinunciato a se stessa per lavorare nella musica. Ha fatto invidia, ha fatto pena, ha fatto tutta da sola. Schiava e sovrana, sempre fiera di essere “Figlia di…” Loredana.