“Dalla A alla Z”: C come Calcutta

Dal debutto ai grandi successi: la vita e la musica dei protagonisti della scena, uno per lettera. Oggi proseguiamo dalla C come Calcutta. A cura di Francesco Costa
La musica è fatta di storie, di viaggi che attraversano generazioni e influenzano il panorama culturale del proprio tempo. “Dalla A alla Z” è la rubrica che ripercorre le carriere degli artisti più iconici della scena italiana e internazionale, raccontando le loro origini, i primi passi, le sfide e i successi che li hanno consacrati. Oggi proseguiamo dalla C, C come Calcutta.
Un percorso che parte dagli esordi e arriva fino ai giorni nostri, tra aneddoti, evoluzioni stilistiche e curiosità che hanno segnato il loro cammino artistico. A cura di Francesco Costa, questa rubrica si propone di esplorare in profondità il talento, la determinazione e l’unicità di ogni singolo artista, analizzando l’impatto che ciascuno ha avuto sulla musica e sul pubblico.
“Dalla A alla Z”: C come Calcutta
I capelli lunghi che gli coprono il viso, la barba incolta, tra le labbra una sigaretta che non sembra una sigaretta e indosso le prime cose arraffate alla cieca dall’armadio. Di primo acchito, lo potresti confondere con un clochard, ma è proprio questa la sua bellezza. L’artista della puntata di oggi va di corsa e non sa il perché e si gira a guardare se perde parti di sé. Non vuole restare più in mezzo alla gente né in un piccolo ambiente, vuole solo fare un giro prima dell’apocalisse. Il suo nome inizia con la lettera C, C come Calcutta.
Dominati dalla prevaricazione visiva, da tutti questi schermi che troviamo ovunque, dalle immagini che ci bombardano il cervello. Andiamo ai concerti per vedere il nostro cantante preferito, per fotografarlo dall’angolazione migliore. Al regno degli occhi, lui si ribella e lo fa a Villa Medici nell’ottobre del 2023. I fan accorrono numerosi, ma davanti alle porte d’ingresso della sala in cui c’è Calcutta trovano cinque pannelli che bloccano l’accesso, ognuno dei quali forato da una lettera diversa per comporre la scritta “Relax”, titolo dell’album in uscita pochi giorni dopo. Se vuole guardarlo esibirsi con la sua band, ogni spettatore ha trenta secondi per spiarlo da una delle lettere. In scaletta, tutte le canzoni dei vecchi dischi, ma non quelle del nuovo come “2minuti”, singolo che impazza nelle radio e gli frutta due dischi di platino.
Come se ci fosse bisogno di altre dimostrazioni, con questo show voyeuristico si consolida ancora di più il suo ruolo di divo dell’indie e consequenzialmente anti divo del pop. «Guardare il cielo da fessure come topi nei tombini», canta in “Limonata”, preannunciando otto anni prima la performance. L’illusione è che sia un concerto normale, ma la vita è scomoda. Tu pensi di rilassarti, ma la tua poltrona – che già in “Rai” è infuocata – può trasformarsi da un momento all’altro nella poltrona del dentista che appare nella copertina del disco ed è questo il concept che sta alla base di ogni traccia. Per certi versi, le sonorità sono più orecchiabili come in “Loneliness” e popolari come in “Coro”, il canto alpino che apre l’album, ma prestando più attenzione ai testi ci accorgiamo che di ragioni per stare rilassati ce ne sono ben poche. «Perché non volete mai restare al buio? Io ci sarò comunque, resterò seduto», annuncia in “SSD” lasciando intuire che il suo obiettivo è portare chi lo ascolta a sedersi in quel buio.
Calcutta è il dentista che ti trapana i denti di verità che non vuoi vedere, paure che lasceresti sommerse. È il sorriso che ti spacca in tre quando ti parlano di lei, da “Sorriso (Milano Dateo)”, ed è anche il coltello. Lo afferma nel secondo pezzo estratto “Giro con te”. A volte non lo capisci se è un sorriso o un coltello, ma anche quando il sorriso te lo strappano irruentemente via, ti rimangono sempre i denti. Eccola che emerge, anche nel quadro più sconsolato, una sfumatura di ottimismo in questo disco della maturità che trova però dei contatti con il passato. In “Allegria”, la gioia se ne va e lo spezza come pane carasau. Un omaggio alla Sardegna che menziona già in “Del verde”, brano struggente e delicato figlio del suo secondo album.
Che sia sardo o del litorale romano, nel mare, Calcutta ci mette i piedi. Peccato che, mentre dovrebbe contemplare il panorama, si ritrova a pensare che sembriamo tutti falliti. Tutti esauriti, tutti impauriti, tutti bolliti. “Tutti”, si chiama così uno dei pezzi più intensi e streammati del disco più recente. È l’ineluttabilità del vivere, del realizzare che un amore in cui abbiamo creduto non si concretizzerà e questo ci fa sentire come leghisti in riva al Po senza più un capobranco. «Guerra persa, non ero mai finito a letto con una di destra», canta invece in “Controtempo”, dimostrando che i riferimenti politici sono un altro must della sua scrittura. E la mente torna alla svastica in centro a Bologna fatta solo per litigare di uno dei suoi più grandi successi, “Gaetano”, singolo estratto a inizio del 2016, pochi mesi dopo l’uscita del cd della svolta.
Nella vita, in fondo, serve una notte per incominciare e lui questa notte la trova con una canzone pop che detta legge nell’universo degli artisti indipendenti, “Cosa mi manchi a fare”. È dai bangla market, scelti come location per il tour promozionale del disco “Mainstream” nell’autunno di dieci anni fa, che qualcosa cambia. Il boom non arriva subito, ci vuole ancora un po’ di tempo perché dai semi piantati cresca un “Albero”, ma a partire dal 2017 divampa il fenomeno Calcutta. Il suo nome è sulla bocca di tutti perché rompe la nicchia, frantuma la barriera, soltanto apparentemente invalicabile, che ha sempre diviso il popolare dall’intellettuale, il romanzo rosa dal mattone polacco che compra solo Giacomo Poretti, la hit di facile presa della pop star di turno dal pezzo criptico del più ignorato dei cantautori. Come un traghettatore di anime verso lidi inesplorati, porta l’indie nelle camere dei ragazzi, nelle abitazioni delle casalinghe e dei casalinghi di Voghera, negli uffici, nel mondo. Rivoluziona il modo di scrivere, comporre e pensare la musica.
E allora diventa normale parlare nelle canzoni di imbarcazioni piccole che costeggiano i reni e chiedere a gran voce di andare a Peschiera del Garda a fare il bagno come fa in “Le barche”. Non conta usare strutture musicali canoniche ed essere precisi e impettiti, si può anche scegliere di non curare la barba, vestirsi di stracci e stonare se si ha qualcosa da dire purché lo esprima con parole diverse. Assuefatti dal trittico sole-cuore-amore che imperversa da molti (troppi) anni nelle classifiche, cerchiamo nuovi modi per cantare l’amore. E allora diventa un complimento dire a una donna: «La cosa più bella che hai è che non parli mai», da “Saliva”.
Diventa una dichiarazione romantica giurarle che stasera la cercherai sotto le unghie come canta nel tormentone “Oroscopo” con Takagi e Ketra, hit maker che incontra anche in “La luna e la gatta” del 2019 con Tommaso Paradiso e Jovanotti. Che piace di Calcutta è anche il coraggio di non temere l’accusa dell’etichetta di venduto perché sdoganare l’indie non deve coincidere con la rinuncia al pop. Una bella canzone è una bella canzone e lui ne crea diverse anche per gli altri come “Io non abito al mare” di Francesca Michielin e “Se piovesse il tuo nome” che canta con Elisa. E quell’esordio con il duo dei miracoli, così sfacciatamente radiofonico, segna un prima e un dopo. Oltre a essere il suo primissimo pezzo certificato, quando lo scrive è ispirato dalla nascita del figlio dell’amico Davide Panizza, il frontman dei Pop X con cui collabora nei primi anni quando è ancora un personaggio in cerca d’autore. Quando è Edoardo, un ragazzo di cui ancora oggi si sa veramente poco.
Sappiamo che è di Latina, che nel cuore ha Bologna, che passa da un gruppo all’altro prima di trovare la quadra con Marco Crytpa nel 2009 quando nasce il progetto Calcutta. Un progetto che non si scalfisce nemmeno quando il duo si scioglie perché tanto il suo aspetto ricorda quello stereotipato del venditore di rose quindi tanto vale tenersi una città indiana come nome d’arte. Arriviamo così al 2012, anno in cui oltre a finire il mondo secondo il calendario Maya esce il primo disco “Forse…”. Al suo interno pezzi profondi come “Cane” in cui racconta in modo schietto e non retorico il dolore della perdita e canzoni più apparentemente no sense come “I dinosauri” («Forse un giorno torneranno con in regalo un’asteroide»).
La follia lucida è un altro degli elementi che contribuiscono a renderlo il Re Mida dell’indie, quella follia che lo spinge a presentare un disco, non nelle sale da concerto o nelle librerie come farebbero tutti, ma negli autogrill come fa con “Evergreen” del 2018. Album che, complice il nome, si riempie di canzoni sempre verde che canteremo anche tra cinquant’anni. Non più solo canzoni, ma inni generazionali come quello della Tachipirina 500 che diventa 1000 se ne prendi due (“Paracetamolo”) e della botte che perde negli occhi (“Pesto”).
A volte, ascoltandolo, potrebbe venire spontaneo domandarvi che cosa voglia dire. «E adesso che mi lasci solo con le cose fuori al posto loro», canta Calcutta proprio nell’ultima canzone che ho citato. Le cose fuori al posto loro. Le cose sono fuori, dai cassetti del conosciuto, da qualsiasi schema e preconcetto. Ma in questo fiume nero di ipocrisie e contraddizioni, è così trovano il loro posto.
Capire la vita significa abbracciare l’ossimoro, significa rinunciare alla perfezione che sappiamo benissimo non esistere ma che immancabilmente continuiamo a cercare, significa assemblare gli ingranaggi del mondo a caso come faceva Picasso. Smontare le regole del noto per renderlo più avventuroso, sparire dal palcoscenico che tutti cercano e dal quale nessuno vorrebbe scendere per poi ritornare come un lampo in mezzo alla città. Come fa Calcutta che non ha lavato i piatti con lo Svelto ed è questa la sua libertà. E se tu, mondo cane, hai qualcosa da ridire, fatti gli affari tuoi.